Tragedie scombinate, l’arte di Manganelli

Esce postumo un volume con testi raffinati, ispirati a Shakespeare e ai greci

Non mancano, nella storia universale del pensiero, dei singolari scrittori di teatro che senza tema di smentita si potrebbero definire commediografi involontari. Nel senso che, del tutto indifferenti sia alle leggi della scena che all’eventualità della rappresentazione, sedotti a una svolta significativa della loro produzione dalle sconfinate possibilità del dialogo, hanno preferito articolare in battute deliranti, lunghissimi monologhi e sterminate digressioni a più voci dei romanzi volutamente privi del contesto abituale della narrativa.
Vogliamo ricordare almeno due di questi clamorosi «casi di coscienza» del Novecento, paradossalmente monchi del paesaggio contestuale del personaggio ossia della città, del paese, del viaggio che d’abitudine si accompagna alle peregrinazioni dell’eroe? Basta il nome di Thomas Hardy col suo splendido poema The Dynasts, dove gli spiriti dell’aria e del cielo commentano dall’empireo le imprese napoleoniche che si svolgono sulla terra e, su tutt’altro registro, quello di Djuna Barnes che in Antiphon ambienta in una casa-tempio l’inatteso incontro tra i vivi e i morti a promuovere un dibattito sugli esili confini tra quinte dell’anima e palcoscenico tradizionale? A una discussione di questo genere si presta mirabilmente il volume postumo del teatro di Giorgio Manganelli, quelle Tragedie da leggere ora pubblicate da Aragno (pagg. 298, euro 22), dove il più squisito e, a tratti, inaccessibile tra gli orafi della nostra parola letteraria si compiace di mettere in scena gli eroi miracolosamente sfuggiti al Pantheon prezioso e rarefatto del suo eloquio perenne.
Come Manganelli concepì il teatro auspicandone, motu proprio, il rinnovamento è presto detto: gli venne infatti in soccorso il Terzo programma radiofonico, un mezzo oggi purtroppo inaccessibile al fruitore di araldiche squisitezze. A quel medium privilegiato dove regna esclusiva e solitaria la parola, lo scrittore consegnò la sua ricetta per un rinnovamento elitario della scena, in accanito contrasto con quel teatro epico ai suoi occhi inficiato da un deplorevole assenso di massa come dai tentativi solitari dei «drammi eretici» di Pasolini. Mentre quest’ultimo, infatti, si apprestava a riscrivere i tragici greci con gli strumenti della psicanalisi dopo averne tradotto i capisaldi per Gassman, Manganelli da buon anglista metteva in scena in un fantomatico high tea ambientato tra zollette e miele nell’alto dei cieli tre coppie singolari ed equidistanti. Dove, oltre a Gesù e alla Maddalena in funzione di coreuti, Amleto e Ofelia da un lato contrastati da Edipo e Giocasta dall’altro, ci informano, divenuti prototipi degli intellettuali dei giorni nostri, sul loro effettivo trapasso. Ofelia, che desiderava eternamente giocare «in una casa a forma di letto» scelse la via d’acqua di un fiume che «le faceva la corte con calmo sentimento» affrontando la morte come «un vuoto nell’aria». Amleto dichiara invece di avere scambiato il fantasma del padre per lo stesso oracolo che ha determinato il tragico fato di Edipo. Il quale promuove la menzogna a motore del mondo e dei suoi delitti confinando la profezia col suo falso simbolismo tra gli inutili arredi che decorano l’habitat dei vivi, mentre Cristo è assente silenzioso e la Maddalena appare ignara del suo destino dopo la Deposizione dalla croce.
Ma ancor più ghiotta è la manipolazione dell’Otello da parte di colui che si estasiò, in una mirabile traduzione, sui tormenti e il martirio della Duchessa d’Amalfi dell’ elisabettiano John Webster. Manganelli infatti scombina i piani della tragedia del Moro fin dal titolo.

Che sotto l’egida di una constatazione d’obbligo come «Cassio governa a Cipro» allude con acidulo sarcasmo agli squinternati disegni politici di una Serenissima sottoposta, secondo lui, non ai diktat di un Doge sobillato da un padre ingannato e tradito come Brabanzio, ma soggetta agli slalom, alle cadute e agli imprevisti balzi in avanti di uno sportivo di nome Jago. L’unico in grado di riscrivere oggi un dramma della gelosia con tutti i particolari in cronaca dove Desdemona - chi l’avrebbe mai detto - è ritenuta pienamente responsabile della sua tragica fine.

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