Non mancano, nella storia universale del pensiero, dei singolari scrittori di teatro che senza tema di smentita si potrebbero definire commediografi involontari. Nel senso che, del tutto indifferenti sia alle leggi della scena che alleventualità della rappresentazione, sedotti a una svolta significativa della loro produzione dalle sconfinate possibilità del dialogo, hanno preferito articolare in battute deliranti, lunghissimi monologhi e sterminate digressioni a più voci dei romanzi volutamente privi del contesto abituale della narrativa.
Vogliamo ricordare almeno due di questi clamorosi «casi di coscienza» del Novecento, paradossalmente monchi del paesaggio contestuale del personaggio ossia della città, del paese, del viaggio che dabitudine si accompagna alle peregrinazioni delleroe? Basta il nome di Thomas Hardy col suo splendido poema The Dynasts, dove gli spiriti dellaria e del cielo commentano dallempireo le imprese napoleoniche che si svolgono sulla terra e, su tuttaltro registro, quello di Djuna Barnes che in Antiphon ambienta in una casa-tempio linatteso incontro tra i vivi e i morti a promuovere un dibattito sugli esili confini tra quinte dellanima e palcoscenico tradizionale? A una discussione di questo genere si presta mirabilmente il volume postumo del teatro di Giorgio Manganelli, quelle Tragedie da leggere ora pubblicate da Aragno (pagg. 298, euro 22), dove il più squisito e, a tratti, inaccessibile tra gli orafi della nostra parola letteraria si compiace di mettere in scena gli eroi miracolosamente sfuggiti al Pantheon prezioso e rarefatto del suo eloquio perenne.
Come Manganelli concepì il teatro auspicandone, motu proprio, il rinnovamento è presto detto: gli venne infatti in soccorso il Terzo programma radiofonico, un mezzo oggi purtroppo inaccessibile al fruitore di araldiche squisitezze. A quel medium privilegiato dove regna esclusiva e solitaria la parola, lo scrittore consegnò la sua ricetta per un rinnovamento elitario della scena, in accanito contrasto con quel teatro epico ai suoi occhi inficiato da un deplorevole assenso di massa come dai tentativi solitari dei «drammi eretici» di Pasolini. Mentre questultimo, infatti, si apprestava a riscrivere i tragici greci con gli strumenti della psicanalisi dopo averne tradotto i capisaldi per Gassman, Manganelli da buon anglista metteva in scena in un fantomatico high tea ambientato tra zollette e miele nellalto dei cieli tre coppie singolari ed equidistanti. Dove, oltre a Gesù e alla Maddalena in funzione di coreuti, Amleto e Ofelia da un lato contrastati da Edipo e Giocasta dallaltro, ci informano, divenuti prototipi degli intellettuali dei giorni nostri, sul loro effettivo trapasso. Ofelia, che desiderava eternamente giocare «in una casa a forma di letto» scelse la via dacqua di un fiume che «le faceva la corte con calmo sentimento» affrontando la morte come «un vuoto nellaria». Amleto dichiara invece di avere scambiato il fantasma del padre per lo stesso oracolo che ha determinato il tragico fato di Edipo. Il quale promuove la menzogna a motore del mondo e dei suoi delitti confinando la profezia col suo falso simbolismo tra gli inutili arredi che decorano lhabitat dei vivi, mentre Cristo è assente silenzioso e la Maddalena appare ignara del suo destino dopo la Deposizione dalla croce.
Ma ancor più ghiotta è la manipolazione dellOtello da parte di colui che si estasiò, in una mirabile traduzione, sui tormenti e il martirio della Duchessa dAmalfi dell elisabettiano John Webster. Manganelli infatti scombina i piani della tragedia del Moro fin dal titolo.
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