Tragico sberleffo targato Thomas Bernhard

«Ritter Dene Voss» nell’allestimento di Piero Maccarinelli In scena tre grandi attori: Popolizio, Mandracchia e Paiato

Durante l’intervallo uno spettatore «accorto» scambia due parole con qualche amico. Ci colpisce una frase: «Da loro tre non potevamo aspettarci di meno. Ci saremmo infuriati se non fossero stati così bravi». E in effetti i tre attori allusi in questo arguto giudizio, ovvero Manuela Mandracchia, Anna Paiato e Massimo Popolizio, interpreti del bernhardiano Ritter, Dene, Voss di scena in questi giorni al teatro India su regia di Piero Maccarinelli, sono davvero straordinari. Nulla da eccepire. Le loro diverse cifre stilistiche qui vengono fuori in modo esemplare, non senza declinazioni volutamente marcate e non senza, neppure, una dose di lieve compiacimento, che tuttavia non stona. Forse perché questa pièce di Bernhard, autore difficile eppure sempre più rappresentato sulle nostre scene, è essa stessa un cinico quadretto familiare intriso di riferimenti metateatrali: i nomi del titolo appartengono, infatti, a tre pregevoli attori della compagnia di Claus Peymann, i quali però non recitano «se stessi» bensì animano un interno-inferno borghese, spartendosi i ruoli di due sorelle rivali, figlie del defunto industriale Worringer, che per fuggire la noia della loro ricca condizione sociale si sono date, appunto, al teatro e che - venendo più precisamente ai fatti - si accingono a ospitare il fratello filosofo Ludwig, rinchiuso da anni nel manicomio di Steinhof e anch’egli in fuga dalla pesante eredità morale della sua famiglia. Sono dunque la preparazione di un pranzo, lo svolgimento di un pranzo e ciò che resta dopo il pranzo i quadri ambientali ed emotivi che si susseguono in due ore di spettacolo. E in questa successione, alla quale Maccarinelli si attiene senza interventi registici rilevanti (fatta esclusione per l’attenzione posta all’intarsio dialogico degli interpreti), non potrebbe che verificarsi l’immobile caduta di tutti i personaggi: la rivelazione estrema del loro fallimento, la messa a fuoco delle dinamiche morbose e perverse che muovono le loro relazioni. La sorella maggiore (una Paiato mascherata di rigidità e nevrosi e stupendamente a suo agio nel ruolo) ricopre l’ostico fratello di cure e attenzioni materne; la sorella minore (una Mandracchia inquieta, grottesca, modulata su incisivi scarti umorali) mostra nausea e disappunto per la casa/tomba in cui si trova relegata e, infine, il filosofeggiante fratello pazzo di Popolizio (invasato conoscitore di Wittgenstein e compilatore esso stesso di un trattato di Logica) possiede le oscillazioni - anche estreme e urlate - dei personaggi stravaganti ma, a loro modo, combattivi. Alla fine di questo famelico corpo-a-corpo non possono esserci nè vincitori nè vinti. Tanto più che qui l’autore austriaco ci risparmia pure il suicidio o la morte di uno dei tre fratelli (come capita invece in Prima della pensione, allestito proprio da Maccarinelli nel 2000) e li condanna tutti all’infelicità, alla clausura forzata, all’instancabile fatica di vivere pur non volendo. È lo scherzo atroce dell’esistenza. È lo sberleffo sotteso alla condizione umana: tragica ma in fondo inevitabilmente comica.

Motivo per cui viene il dubbio che, forse, maggiori sarcasmo e ironia (basti ricordare la «eduardiana» messinscena del medesimo testo firmata anni fa da Carlo Cecchi) non avrebbero guastato.
Repliche fino al 2 dicembre. Info: 06-684000311.

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