Tramonti d’artista: la solitudine dei n. 10

Ronaldinho interrompe il suo ballo del mattone, esce dal prato del Meazza prima che la festa finisca e se ne va sotto la doccia, triste eroe solitario. Del Piero resta in panchina ad osservare i suoi sodali che corrono e sudano per battere il Cagliari, la folla nostalgica di Torino lo acclama, lo desidera, il modernariato non passa di moda. Totti abbandona la partita contro l’Inter e se ne va imbronciato come un pupo, non un pupone. Il mito parla soltanto dal sito.
È la solitudine dei numeri dieci, non di maglia ma di testa, di gioco, di arte pallonara. La solitudine di un ruolo e di un mestiere che non fanno più parte del football ma al quale ci attacchiamo per sognare, per divertirci, le figurine d’infanzia per andare in gol.
È la solitudine di un brasiliano che vive di rendita a Milano, il carnevale rossonero deve finire; è la crisi solitaria del capitano della Roma che sa di essere intoccabile ma viene comunque toccato dal suo allenatore, testaccino, dunque romanissimo pure lui. È l’ultimo fuoco di un altro capitano, della Juventus, che vuole battere il record di gol di Giampiero Boniperti senza sapere, non lui ma i nuovi cronisti, che non conta soltanto il numero ma quello che passa alla storia di un club (Boniperti fu l’unico italiano ad essere convocato nella rappresentativa resto del mondo che sfidò l’Inghilterra a Wembley, la partita finì 4 a 4 e Boniperti segnò due gol).
Non è il tramonto ma la parabola del numero dieci è incominciata da tempo, da quando la tattica ha ucciso la fantasia, da quando gli schemi hanno soffocato la creatività, da quando gli allenatori hanno disposto i giocatori, come nel calciobalilla, allineati, in orizzontale, spostando il cervello a lato, sulla sinistra, perché il gioco deve essere collettivo, l’interprete deve essere universale, l’attaccante deve difendere, il difensore deve attaccare e il regista si faccia da parte, anzi lascia la sedia del direttore di scena e si adoperi al ciak e alle luci, come un qualunque operatore. I casi di Ronaldinho-Del Piero-Totti riassumono il cambio storico del calcio, la prevalenza dell’allenatore sul calciatore, l’abbandono della qualità per la quantità. Del resto il verbo maggiormente usato nei «pre» e «post» partita è «lavorare», dunque sudore, fatica, routine, fabbrica, nessuno più usa il verbo «allenare» che sa di olio canforato, di partitella, di dribbling, di erba appena tagliata. Il fantasista resta un numero da circo, Ronaldinho accontenta il pubblico, e se stesso, durante la fase di riscaldamento, palleggia, calamita il cuoio (plastificato!), si traveste da foca, sorride, esce per ultimo dal campo dopo aver provato a colpire la traversa come Enrique Omar Sivori che, cinquant’anni fa, calciava da metà campo fino a quando il pallone non gonfiasse la rete e la curva Filadelfia si esaltava.

Totti e Del Piero appartengono all’ultima generazione di artisti italiani, alle loro spalle il vuoto, le premesse, le promesse, vagiti di Montolivo, non altro di serio, di sostanzioso, la solitudine dei numeri dieci è destinata a restare tale, immalinconita e abbattuta dall’orda di cursori, muscolari, intensi, sedicenti calciatori.

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