Con il trasloco di Ruffini Raitre torna libera di cercare nuove idee

La fuoriuscita da Raitre di Paolo Ruffini, reclutato da La7 per meriti professionali (e non perché perseguitato o, al contrario, raccomandato da questo o quel politico), offre alla sinistra italiana una grande opportunità politica e culturale. Al pensiero unico buonista-giustizialista, che ha progressivamente egemonizzato la cultura della sinistra, oggi può finalmente sostituirsi una liberatoria politica dei cento fiori, ricca di domande e di curiosità più che di certezze e di ideologie, incline alla sperimentazione più che al consolidamento, all’irrisione più che al conformismo.
Ruffini, che è prima di tutto un giornalista politico di grande raffinatezza (oltreché figlio di ministro e nipote di cardinale), assume la direzione di Raitre nel 2002, cioè all’inizio del decennio berlusconiano. L’anno prima il centrosinistra aveva perso le elezioni (dopo aver cambiato quattro leader in cinque anni), e il ritorno del Cavaliere a palazzo Chigi sembrò a molti l’entrata in un tunnel di cui non si poteva scorgere l’uscita. L’antiberlusconismo come fenomeno politico-culturale nasce precisamente così: dalla disperazione di chi non crede più nelle armi della politica per sconfiggere l’avversario, che infatti diventa il «nemico», in una guerra senza quartiere dove il fine giustifica sempre i mezzi e chi solleva un dubbio viene accusato di alto tradimento.
È insomma la sinistra dei «girotondi» che idealmente accompagna Ruffini a Raitre, più che mai considerata, nel clima di fantomatica resistenza al regime che si era venuto creando, la cittadella incorruttibile e inespugnabile della libertà di informazione. La Raitre di Angelo Guglielmi - la prima rete pubblica gestita dal Pci - era nata su premesse molto diverse, e soprattutto con un segno marcatamente ottimista sul futuro del Paese e della sinistra (dove invece l’antiberlusconismo è per natura cupamente pessimista), e dunque curioso, sperimentale, irriverente. Lo stalinismo da operetta della Telekabul di Sandro Curzi si mescolava allegramente all’impertinenza di uno sconosciuto Piero Chiambretti o all’ironia amara del grande Andrea Barbato. Un giorno in pretura non difendeva i giudici, ma i cittadini. Michele Santoro, catapultato in televisione da un giornaletto di provincia del profondo sud, scoprì per primo l’esistenza di un certo Umberto Bossi. E Blob, frutto del genio di Enrico Ghezzi, ha distrutto per sempre la retorica televisiva (e tutta quanta la tv) inverando la profezia sessantottina sulla risata che ci seppellirà.
Nel clima mutato degli anni 2000, Raitre non si percepisce più come l’avanguardia, ma come l’ultima trincea, il ridotto di una sinistra frastornata e impaurita. Ruffini costruisce nel corso del tempo un’identità di rete capace di soddisfare il bisogno primario del proprio pubblico: essere rassicurati e potersi indignare. La retorica buonista dell’«Italia migliore» da contrapporre a quella berlusconiana è il sottotesto che percorre e anima anche programmi eccellenti come Report (per non parlare dei pessimi, come Hotel Patria), e che è il vero fondamento teorico e morale del giustizialismo.
Il pensiero unico della sinistra (buonista perché giustizialista, e viceversa) ha progressivamente emarginato le componenti liberali, riformiste, libertarie, e in definitiva ha privato il Pd di una cultura politica autonoma. Emblematico il salotto di Ballarò, meritato fiore all’occhiello della Raitre ruffiniana: Giovanni Floris (che come il suo direttore è un gran secchione) ha puntato tutto sulla qualità del prodotto, così da rendersi inattaccabile, salvo poi selezionare con inflessibile severità gli argomenti, gli ospiti e gli interlocutori. Ballarò è senza dubbio il migliore talk show della tv italiana (al punto da spingere Piersilvio Berlusconi ad invidiarlo pubblicamente), ma a rappresentare la sinistra se non c’è Rosi Bindi c’è Antonio Di Pietro, e se non c’è Massimo Giannini c’è Concita De Gregorio. Non si tratta affatto di faziosità, ma di una scelta editoriale, cioè politica e di mercato.
Ora la sinistra ha l’occasione di voltare pagina. Non per imporre una nuova linea o per chiudere qualche programma giudicato magari poco «bersaniano», ma per riaprire il cantiere della sperimentazione.

La sinistra che si prepara a succedere a Berlusconi non può avere la stessa cultura politica della sinistra che l’ha combattuto credendolo l’Anticristo. Che cento fiori fioriscano, dunque, che cento scuole gareggino: per il vantaggio di tutti.

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