Trattato newyorchese d’ipocrisia e disillusione

«Era un caotico grumo di ambizioni, e sapeva di dover trovare al più presto qualcosa su cui riversarle; altrimenti rischiava di cadere in un risentimento incurabile, senza ritorno». È la sintesi perfetta per i diversi trentenni protagonisti de I figli dell’imperatore di Claire Messud (Mondadori, pp. 493, euro 18,50), a sua volta lavoro molto ambizioso e consapevole; ma la definizione potrebbe tranquillamente applicarsi a tutti gli altri personaggi di questo libro elaboratissimo e volutamente irritante. Il romanzo della Messud, Edith Warton dei giorni nostri, si colloca in pieno nella tradizione della comedy of manners anglosassone, ma lo scenario che più sofisticato e in fondo stereotipato non si può dell’élite intellettuale newyorchese, si colora di tutte le ignare inquietudini dei mesi immediatamente precedenti l’11 settembre. A quel periodo tutti, dopo quella fatidica mattina, avrebbero riportato la memoria, cercando di recuperare l’innocenza perduta e di dare un senso a quello che prima non erano parso così importante.
Tutti tranne gli antipatici bambini viziati della Messud, che nonostante le ottime carte a loro disposizione - scuole di prestigio, intelligenze non banali, possibilità di riuscire nelle professioni che fanno tanta fatica a prendere di petto - non riescono a trovare il loro posto nel mondo, imbevuti delle proprie paranoie e ripiegati sulle loro ansie da prestazione. La figlia di famiglia bellissima e incapace di portare a termine il primo importante lavoro della sua vita, servitole su un piatto d’argento, l’amica Danielle, produttrice televisiva sottoutilizzata e sentimentalmente fragile, Julius, il gay dal gusto indiscutibile ma anch’egli professionalmente inconcludente; dalla tragedia vengono trasformati per nulla o quasi, e Messud introduce il grande evento come la ciliegina sulla torta della sua commedia sociale. L’unica salvezza dell’ultima generazione di professionisti della cultura newyorchese sono le menti brillanti e analitiche che li rendono i veri critici di se stessi, senza che Messud sembri muovere un dito per farlo. Il suo vero capolavoro: l’indiscusso «imperatore» Murray Thwaite, giornalista notissimo nonché padre di una delle protagoniste, dominatore delle scene letterarie glamour della città, incarnazione perfetta dell’intellettuale trombone contemporaneo e sintesi delle contraddizioni liberal, uomo che si muove nel lusso, ma strenuo difensore della verità, della giustizia e delle cause più importanti del pianeta.
«I figli dell’imperatore non hanno vestiti», titolerebbe il vano libro sulla moda che sua figlia dovrebbe scrivere. E se l’obiettivo di Messud era un trattato sull’ipocrisia e sulla disillusione, c’è riuscita benissimo. Se di qualcosa soffre il romanzo, che riuscirà a far palpitare soprattutto inquieti coetanei dei ragazzi, è la confusione di intenti, perché oltre all’amarezza contagiosa dei personaggi, la satira sociale non riesce ad essere incisiva, mentre la satira politica non prende vita.

E dal punto di vista formale, l’aver scelto di raccontare la sua storia scegliendo un registro narrativo ottocentesco alla Henry James sembra togliere vigore alle contraddizioni contemporanee della società che vuole ritrarre.

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