Travaglio sbeffeggiava i detrattori del Senatùr sulle pagine della Padania

La firma del vicedirettore del Fatto già nel 1996 su il Nord. Poi per alcuni mesi tenne due rubriche sul quotidiano leghista con lo speudonimo di Calandrino

Travaglio sbeffeggiava 
i detrattori del Senatùr 
sulle pagine della Padania

Paolo Bracalini - Paola Setti

Correva l’anno 1997 e Marco Travaglio scriveva sulla Padania. Lui, quello che ora sulla Lega e dintorni di riti padani spara bordate dalla prima pagina del Fatto quotidiano, all’epoca troneggiava sulla prima pagina dell’organo di partito leghista. Dal primo numero. Pardon. Dal numero zero. Lo avevano chiamato Il Nord, lo distribuirono il 15 settembre 1996 sul Po, edizione speciale per un’occasione storica: la nascita della Padania. Un progetto affidato a Daniele Vimercati, grande giornalista che tra i primi comprese la portata del fenomeno Lega. «Daniele studiò quel progetto per un quotidiano d’area - racconta Gianluca Marchi, primo direttore della Padania -. Raccolse finanziamenti da 4 imprenditori, con mezzo miliardo l’uno, ma servivano più soldi. Il Nord non si fece più, nacque il giornale di partito, che Daniele rifiutò perché non voleva incarichi di partito».
Ecco, dopo 15 anni ripeschiamo quel numero zero, sfogliando tra l’enorme archivio personale di Leonardo Facco, editore libertario (ex militante leghista), autore di una biografia di Bossi per Aliberti («Umberto Magno»). Titolo della prima pagina de Il Nord a lettere cubitali: «Nasce Padania». Sottotitolo: «Sul Po la più grande manifestazione indipendentista del secolo. Bossi: Italia addio, indietro non si torna». Nelle pagine 2 e 3, la cronaca della giornata affidata a Matteo Mauri, Bossi che dice «il dado è tratto», e poi gran rullar di tamburi perché «l’Italia è finita», mentre «entra nella storia la Repubblica federale padana finalmente legittimata». E poi a pagina 6 Gilberto Oneto che racconta la Padania terra di democrazia, e a pagina 7 la dichiarazione di indipendenza: «La Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. A sostegno di ciò noi offriamo gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore».
Ecco. Marco Travaglio può dire senz’altro: io c’ero. Per la precisione alle pagine 4 e 5. Chissà se ha giurato, lui pure. A giudicare dall’entusiasmo di quella doppia paginata, forse sì. Titolone della parte superiore: «L’Umberto è un mitomane», con dentro tutte le dichiarazioni dei detrattori della neonata patria padana. Nella parte sotto, l’altra metà del titolo: «Ma una volta era un mito», con carrellata di tutti coloro che, negli anni precedenti, avevano lodato il Senatùr. Uno spaccato divertente, rivisto col senno di poi. Giorgio Bocca per esempio diceva: «Odiare la Lega è da cretini, la fobia per la Lega è cretina», e poi ribadiva: «La Lega non ha creato il cambiamento, la Lega è il cambiamento». Massimo D’Alema, ormai si sa: «Dobbiamo allearci con Bossi nel nome di Prodi, la Lega è una nostra costola». Prodi concordava: «Possiamo fare un accordo forte e trasparente». E poi in ordine sparso: Santoro che dice a Demattè che «senza Lega lei non sarebbe qui e nemmeno noi», Franco Zeffirelli per il quale «i leghisti sono le sole persone pulite che esistono oggi», Gianni Agnelli secondo cui «chi ha votato Lega è persona ragionevole e attenta al nuovo».
Li aveva pizzicati per bene, Travaglio. Rimproverando agli altri così, solo per averne messe in fila le dichiarazioni, il peccato dell’incoerenza. Ed era appena incominciata. Dopo quel tributo sul numero zero, l’attuale vicedirettore del Fatto aveva preso a collaborare con il neonato quotidiano La Padania. Il primo numero è datato 8 gennaio 1997. «Era uno dei nostri collaboratori, gratis, col nome di Calandrino» ricorda Marchi. Travaglio compare già il 12-13 gennaio, edizione unica per la domenica e il lunedì, e va avanti per almeno un paio di mesi, con un articolo ogni due-tre giorni. Non una firma qualsiasi, la sua. «Calandrino» si era meritato una rubrica, anzi due: «il punto» e «il personaggio». Scriveva in modo meno sferzante di oggi e ancora non si dilettava a storpiare nomi e inventare soprannomi approfittando dei difetti fisici delle persone. Ma il giustizialismo era già nelle sue corde, se il primo articolo lo ha dedicato a «L’idea di Flick: salvare i ricchi dal rischio cella». L’antiberlusconismo era già una fissa, «Lo statista di Milanello» lo demoliva il 18 gennaio. E la dissacrazione era già il suo sport preferito, da Francesco Storace definito «simpatico refuso di An noto per l’eloquio forbito e il ragionamento sottile» a Ripa di Meana, «uomo per tutte le poltrone» che «privo di cadreghino addirittura da un mese, ha trovato pace: è il nuovo segretario di Italia nostra». Fino a Buttiglione e Casini «piccioncini della Sacra Famiglia Unita», l’uno «di qua con la colf Formigoni», l’altro «di là con la portinaia Mastella». E poi i ritratti, da Franco Carraro «il nuovo che è avanzato» a donna Letizia (Moratti) «detta Lottizia dopo memorabili imprese Rai».
Di qua Calandrino, pseudonimo fra tanti, da Parsifal a Karl Marx, da Porthos e Vercingetorige passando per il Sciur Curat, di là gli editoriali dei big leghisti, da Bossi a Maroni, da Speroni a Pagliarini, e titoli di apertura tipo «La Padania è già forza per conquistare l’Europa», o appelli come: «Immigrati, no al voto».

Indimenticabile, salvo sforzi di rimozione, resterà la prima pagina del 23 e 24 febbraio 1997. A destra il ritratto di Carraro, presidente della Lega Calcio. A sinistra l’editoriale di Bossi. S’intitolava così: «Soccorso rosso dei magistrati».

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