«Tre anni di fatiche. Ora Reggio cambi mentalità»

Reggio CalabriaEra sulle sue tracce da tempo. Giorno e notte seguiva la sua scia. Un minimo segnale, una minima debolezza erano buoni per tentare di capire da quale parte fosse nascosto e dove stava trascorrendo la sua latitanza che ormai durava dal lontano 28 giugno 1993, quando venne condannato in via definitiva all’ergastolo dal tribunale di Reggio Calabria. Ma Giovanni Tegano, fino all’altra sera, l’aveva sempre fatta franca. Giovanni Tegano è uno dei “padrini” della ‘ndrangheta reggina, uno dei pochi ancora in vita, protagonista della guerra di mafia che alla fine degli anni '80 ha insanguinato Reggio. Per 17 lunghi anni ha comandato, gestito e affiliato adepti alla sua cosca. Gli ultimi 2 anni e mezzo li ha trascorsi con gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria alle calcagna. A dirigerli Renato Cortese, il superpoliziotto che in Sicilia catturò Provenzano.
Come siete arrivati alla cattura di Tegano?
«Dopo due anni e mezzo di indagini, pedinamenti, giorno e notte passati all’addiaccio, senza mangiare e dormire».
Alla fine i risultati sono arrivati.
«Più di una volta pensavamo: ecco, ci siamo. Poi, per un motivo o per l’altro questo momento si allontanava sempre di più. Ieri è stata una grossa soddisfazione riuscire a stringergli le manette ai polsi».
Ma perché proprio l’altro ieri sera l’irruzione in questa palazzina di due piani nelle montagne di Reggio Calabria, a due passi dal suo regno?
«Sì, c’è una strada non molto frequentata che porta a Archi, il territorio di Giovanni Tegano. Noi era da mesi che tenevamo d’occhio il genero di Tegano, Carmine Polimeni, anche lui finito in manette per favoreggiamento. L'abbiamo visto entrare con altre persone in un'abitazione di Terreti».
Quindi cosa è successo?
«Ci siamo organizzati. Quando ci siamo resi conto che quella poteva essere l’abitazione giusta, allora abbiamo chiesto rinforzi e circondato tutta la zona.
Poi?
«Ben nascosti, abbiamo bonificato tutta la zona, ci siamo resi conto quali potevano essere le vie di fuga. Una volta che queste erano ben chiuse, abbiamo aspettato l’imbrunire e poi abbiamo fatto irruzione. Naturalmente abbiamo dovuto fare attenzione a non farci scoprire prima, perché la palazzina dove si nascondeva il boss era controllata da un circuito di telecamere fisse che controllavano da 24 angolazioni tutto il perimetro della struttura».
Per questo avete agito di notte?
«Non solo, perché c’erano anche delle luci molto forti intorno alla palazzina. Però per noi era troppo importante non avere intoppi, quindi fra controlli e sistemazione degli uomini alla fine si è fatto buio».
Una volta dentro?
«Quando siamo entrati, loro erano intenti a dialogare tra di loro in ambienti diversi, il boss era l’unico ad essere armato con una pistola con il colpo in canna che però non ha fatto in tempo ad usare anche perché gli abbiamo puntato subito un faro molto forte agli occhi».


Cosa vi ha detto?
«Nulla, ha ammesso chi era facendosi ammanettare».
Gli applausi fuori dalla questura, all’uscita del boss, le hanno dato fastidio?
«No. Mi lasciano perplesso. Reggio deve cambiare mentalità».

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