Tre film per raccontare l’usignolo triste Jeff Buckley

Il Mississippi restituì il suo corpo devastato, e le sue acque nascondono ancora il segreto dela morte di Jeff Buckley (suicidio, malore o incidente?) ultimo, timido e travagliato angelo del rock. Era il 29 maggio 1997, son passati 14 anni, non ci sono anniversari o ricorrenze dell’evento ma lui, come il padre Tim, è un mito e Hollywood sta preparando ben tre film su di lui. Il più importante, un vero biopic ancora senza titolo ma approvato dalla madre dell’artista, Mary Guibert, che detiene i diritti delle canzoni di Jeff, sarà girato da Jake Scott (figlio di Ridley) e avrà come protagonista l’ultimo Spider Man Reeve Carney. In preparazione anche il più musicale Greetings From Tim Buckley con Penn Badgely (Gossip Girl) e, a metà tra bio e musica, A Pure Drop (dal titolo dell’omonimo libro su di lui) dell’australiano Brandan Fletcher.
Sarà ancora il fascino del bello e maledetto del rock, fatto sta che tre film dedicati a Buckley incuriosiscono non poco, perché lui è una rockstar atipica; un ragazzo della razza apollinea dei Jim Morrison e Brian Jones ma anche una «pura goccia di suono in un oceano di rumore», come l’ha definito Bono. Una storia estrema quella di Jeff e Tim Buckley, un papà rock amatissimo in vita che trasmise tutto al figlio: il viso d’angelo, la voce calda e l’angoscia di vivere. Tim lasciò la moglie prima che il figlio nascesse con le strofe di I Never Asked To Be Your Mountain: «Non so nuotare nelle tue acque né tu nelle mie terre» con una frase su quel bimbo: «fasciato di amare storie e mendico di un sorriso». Jeff nasce quattro mesi dopo e cresce odiando quel padre vagabondo che non conosce. Tim teme per la sua libertà, Jeff fugge il suo bisogno d’identità. Così - scrive Cesare G. Romana - «il piccolo cherubino crebbe con due anime, l’una colma di grazia, l’altra da perseguitato». Cresce con la mamma, ascoltando la musica che lei suona al pianoforte (Chopin, Mendelssohn) e il rock ammannitogli dal patrigno meccanico. A scuola usa il nome Scott Moorhead e si riprende quello ufficiale solo alla morte del padre, ucciso a trent’anni dalla droga e consumato da una scrittura segnata da Rilke, Lorca, Poe; le stesse influenze di Jeff che i Cocteau Twins chiameranno «cuore di Rilke».
Nel 1975 Mary porta Jeff a un concerto di papà, a Huntington Beach e lo guarda ascoltare «eccitatissimo, gli fiammeggiavano gli occhi». Poi un abbraccio di dieci minuti che sembra preludere a un nuovo legame, ma un mese dopo un’overdose porta Tim nella bara e Jeff non va neppure al funerale. Sbarca il lunario facendo un po’ di tutto e suona la chitarra per i disperati poi, a 24 anni, come papà se ne va a New York con la chitarra a tracolla. Canta nei locali dove cantava lui; non dice di esserne il figlio ma per gli appassionati non è difficile riconoscere quella voce intrisa di sogni, il volto e lo sguardo enigmatici. Quando lo invitano a un Tim Buckley Memorial lui cede, ma non vuole che sia annunciato il suo nome. Sale sull’altare, canta I Never Asked to be Your Mountain e conclude con Once I Was a Soldier urlando: «Qualche volta mi domando se solo per un attimo ti ricorderai di me».

Una (due) storia triste anche se punteggiata dalla gloria del successo, dai dischi e dai concerti in tutto il mondo, dai reading con Allen Ginsberg e Peter Orlovsky. Chissà se il cinema riuscirà a rendere viva questa «scintilla che sfreccia nel cielo della notte, verso uno strano posto», come Joni Mitchell lo ha poeticamente definito.

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