Tre milioni i lavoratori in nero: è sommerso il 17,5% del Pil

Tre milioni di «fantasmi» in giro per l’Italia: sono i lavoratori in nero, nella fotografia dell’economia sommersa scattata dall’Istat. Secondo l’istituto, nel 2008 il valore aggiunto prodotto nell’area del sommerso si è attestato tra un minimo di 255 e un massimo di 275 miliardi di euro, con un «peso» sul Pil che oscilla tra il 16,3% e il 17,5%: in pratica, circa un sesto della ricchezza prodotta sfugge alle statistiche ufficiali e, di conseguenza, anche all’erario. Una percentuale superata solo nel 2001, quando la quota sul Pil aveva raggiunto il picco più alto (19,7%), per poi decrescere - anche grazie alle sanatorie a favore dei lavoratori irregolari extracomunitari - fino al 2007: in quell’anno, la «forchetta» era compresa tra 246 e 266 miliardi, quindi tra il 15,9% e il 17,2% del Pil.
Scendendo nel dettaglio, il peso del sommerso è maggiore nell’agricoltura (32,8%) e nei servizi (20,9%), ma è rilevante anche nell’industria, dove si attesta al 12,4 per cento. Ma, sottolinea l’Istat, nel considerare il peso del sommerso nel terziario è utile tener presente l’effetto «calmieratore» del settore pubblico, dove il fenomeno è assente. Se si considera quindi la sola economia di mercato, cioè quella svolta dalle imprese, il sommerso nel 2008 rappresenta il 20,6% del Pil, contro il 17,5% calcolato per l’intera economia.
Ma che cosa si intende per lavoro sommerso? Non dobbiamo immaginare una sorta di mondo parallelo, formato da imprese totalmente sconosciute al fisco e alla statistica: certo, ce ne sono, soprattutto in certe zone del Sud, ma si tratta di eccezioni.
In realtà, l’economia sommersa non è altro che un pezzo dell’economia nazionale: è fatta dal fatturato di tante imprese «regolari» che però fanno lavorare i loro dipendenti anche in nero. È fatta soprattutto di dichiarazioni fasulle, per far sembrare i fatturati più bassi del vero, e di costi di produzione del reddito gonfiati. Gran parte del lavoro nero, insomma, come la Commissione europea nei suoi studi sul tema afferma da tempo, è svolto da persone che lavorano anche nell’economia «formale»: tanto che, se tutto il sommerso dovesse passare all’economia regolare, non è chiaro di quanto aumenterebbe effettivamente il Pil.
D’altra parte, come è facile immaginare, misurare quella che l’Ocse chiama la «non-observed economy» è un’operazione complessa. L’economista Friedrich Schneider, forse il più famoso fra gli studiosi del fenomeno, ha elaborato un criterio particolare, l’utilizzo del circolante: in pratica, la quantità di banconote in circolazione consente di quantificare l’economia «nera», che per non essere rintracciata ha bisogno di denaro contante.
Il rischio, in un Paese come l’Italia più restio di altri all’utilizzo della moneta elettronica, è di sovrastimare il fenomeno, che resta comunque imponente. Anche perchè imprese e lavoratori «sommersi» e «regolari» entrano in contatto in molte occasioni.
A cominciare dalla casa: sono oltre 2 milioni le famiglie che ricorrono ai servizi dei collaboratori domestici, un esercito che in questi ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale, ed è arrivato nel 2009 a impiegare un milione e mezzo di persone, per lo più donne, giovani e immigrati. Il 62% di colf e badanti, infatti, lavora «in nero» o con «un’evasione contributiva parziale». Lo afferma il Censis nella sua ricerca «Dare casa alla sicurezza».

In particolare il 39,8% delle persone intervistate ha dichiarato di essere totalmente irregolare mentre il 22% si districa in una giungla fatta di rapporti irregolari dal punto di vista contributivo, spesso con versamenti inferiori rispetto all’orario effettivamente lavorato.

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