Scivolare stanca. È uno di quei pomeriggi politici in cui pensi non debba accadere nulla di straordinario. A Montecitorio va in scena il rendiconto dello Stato sull’anno 2010. È una specie di atto notarile. Si va lì, si vota, il governo dovrebbe avere i numeri, e poi via. Invece già da un po’ si capisce che l’aria è strana. Lo struscio tra il cortile, il Transatlantico e la buvette è stanco e sfilacciato. Gli strateghi d’aula annusano il vento. Elio Vito comincia un giro di telefonate per radunare gli onorevoli del Pdl. Roberto Giachetti fa tesoro di un’infanzia a soldatini e nasconde tre o quattro deputati dell’opposizione per depistare i nemici. È la tattica del manipolo nascosto da gettare nella mischia quando meno te l’aspetti. Qualcuno c’è cascato. Il risultato è che il governo è stato battuto, per un punto. Non è Caporetto, ma un’altra grana su un percorso faticoso.
Che è successo? Non vi aspettate complotti. Scajola e scajolani continuano ad avere il maldipancia. I leghisti non sono più arzilli come un tempo. I responsabili si sono distratti un attimo. Ma questo non è un agguato politico. Non c’è un piano. Non c’è un’alternativa. Napolitano fatica a trovare qualcuno che abbia voglia di fare il «tecnico» e la stessa opposizione non ha fretta di governare. Questa legislatura non finirà con un gesto d’orgoglio, ma per consunzione. Come dice un deputato del Pd: «Un segnale politico? Mi sembra più sciatteria». Gli assenti e i ritardatari fuori tempo massimo non avevano un disegno. Scilipoti, per esempio, aveva beghe in tribunale. Con lui sono mancati altri cinque responsabili. Guzzanti era in ospedale con un figlio con una caviglia malridotta. «Ho corso. Ma non ce l’ho fatta». Qualcuno stava male. Altri al funerale dell’amico giornalista. Bossi ha perso l’attimo. Era in Parlamento ma la sua andatura non è più quella di un tempo. Scajola aveva una serie di impegni. È arrivato mezz’ora dopo. Calogero Mannino c’era ma a sorpresa ha votato contro. Neppure Berlusconi doveva esserci. Lo stava aspettando Napolitano alla sala della Lupa, per la presentazione del libro su Gaetano Martino, il papà di Antonio. Ma in questi casi il Cavaliere si muove d’istinto. Ha visto quest’aria «stracca» e ha pensato: «Meglio se vado a votare». Aveva ragione. Ancora una volta si è trovato davanti un’armata Brancaleone, senza neppure la scusa delle crociate.
E Tremonti? Il superministro è una filosofia a parte. Lui non è sciatto, ma come certi pensatori di Aristofane cammina per tigna oltre le nuvole. Era lì, peripatetico, che misurava le mattonelle del Transatlantico. I suoi colleghi si chiedevano se questa volta avrebbe avuto voglia di mettere il suo sì su una carta che lo riguardava. Il consuntivo economia è. Guardavano l’orologio: «Entra o non entra?». È apparso pochi minuti dopo, beccandosi bestemmie e bracci levati in segno di stizza come a dire «vai a farti una passeggiata, ma da un’altra parte». Berlusconi quando lo ha visto ha allargato le braccia. Se ne è andato senza dire parola scuotendo i fogli che aveva in mano. Tremonti cadeva dalle nuvole. Il superministro si sentiva assente giustificato. Non vota mai provvedimenti che riguardano la sua funzione. È la sua prassi. Non ha votato neppure il Documento di economia e finanza, quello approvato poco prima con due soli voti di vantaggio. In privato si è giustificato: «Non c’era nessuna ragione politica per la mia assenza». D’altra parte sui fogli presenza Tremonti era segnato in missione. Dove? Al di là dell’Aula. Il Cavaliere: «Dovrei essere più cattivo, ma sono fatto così».
Che fare? Le opposizioni chiedono le dimissioni di Berlusconi. Bersani si aspetta che il premier vada al Quirinale. Questo scivolone rende più facile il lavoro a Napolitano, che finora ha sempre detto che il Cav ha con sé la forza dei numeri. C’è ancora, ma si va sfilacciando. Tocca alla maggioranza rialzarsi in piedi.
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