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Tremonti e i banchieri: qual è il vero piano

Il titolare dell’Economia continua ad attaccarli pur riconoscendo che sono stati molto più prudenti dei colleghi stranieri Ma sparare sui grandi gruppi che in questo momento stanno ottenendo notevoli utili rischia di diventare un boomerang

Tremonti e i banchieri: 
qual è il vero piano

Gli attacchi, sempre più duri, di Giulio Tremonti alle banche suscitano legittimi dubbi. Infatti, egli stesso ha riconosciuto che le banche italiane, in particolare le maggiori, non si sono avventurate nelle operazioni finanziarie spericolate, in cui si sono gettate le banche americane, inglesi, olandesi, e una parte di quelle francesi e tedesche.

Sarà stata prudenza oppure mancata modernizzazione, ma sta di fatto che, per fortuna, Intesa San Paolo e Unicredit, i due grossi istituti bancari italiani, controllati da fondazioni bancarie e intrecci di operatori economico-finanziari non sempre cristallini, non hanno avuto bisogno del salvataggio dello Stato. Non è chiaro sino a che punto questi due complessi e le altre grandi banche italiane stiano finanziando le imprese meritevoli di credito, con criteri auspicabili in banchieri lungimiranti e sino a che punto utilizzino il loro potere di mercato per imporre condizioni di credito che servono a restaurare i loro margini di utile e per porre riparo alle minusvalenze subite e rafforzarsi patrimonialmente. Trascurando le aspettative del settore produttivo. Certo, i due grandi istituti e anche altre banche del nostro paese stanno facendo notevoli utili, che contrastano con le difficoltà di una parte delle imprese a cui esse prestano denaro. E il ministro Tremonti si dispiace perché queste banche non fanno ricorso ai suoi Tremonti bond (cioè prestiti speciali, con la natura di capitale sociale) che sono costosi ma, irrobustendo il patrimonio bancario, consentono di espandere il credito.

Ma poiché si tratta di operatori economici di mercato nessuno può obbligare queste banche a farsi dare soldi dal Tesoro, divenendone, sia pure parzialmente e temporaneamente, succubi. E d’altra parte, se Intesa San Paolo e UniCredit anziché fare buoni utili presentassero bilanci risicati o in rosso, la nostra economia, i nostri risparmiatori e la nostra finanza pubblica sarebbero a rischio. Ci sarebbe da tremare. Dunque non appare una buona cosa sparare sul pianista, anche se la musica che lui suona è un po’ stonata. Meglio questa musica, che la campanella dell’allarme o qualche rintocco di campana funebre, come quelli che Tremonti stesso è riuscito a evitare, con la sua azione prudente e misurata, dall’inizio della crisi in poi. Si vocifera, per altro, che le accuse di Tremonti alle banche e in particolare alle maggiori, mirino alla sostituzione dei loro amministratori delegati, in particolare il duo Passera e Profumo. Ora le scelte degli amministratori delegati appartengono agli azionisti di controllo e, in generale, non sembra che questi abbiano motivi per prendersela con i vertici a cui hanno dato sin qui la fiducia. La nota stonata che viene rimproverata a tali amministratori è di carattere politico: hanno partecipato alle primarie dell’Ulivo e parteggiato esplicitamente per tale coalizione e, ora, sembrerebbero convinti sostenitori del Pd, nonostante i suoi acciacchi.

Ma ogni persona ha diritto alla sua opinione politica. Ovviamente si auspica che essa non interferisca con la sua attività, generando discriminazioni. La tesi di Giulio Tremonti per cui il credito è una funzione pubblica mi sembra eccessiva. Esso è soprattutto un’attività di economia di mercato. Ma anche in regime di libero mercato, non sono ammesse pratiche discriminatorie, motivate da simpatie o antipatie politiche (o religiose o razziali o di clan, eccetera). Ma non sembra che questo sia il rimprovero che si muove a queste banche o a questi manager, in via generale. Invece forse si rimprovera loro di influenzare i media (libri, giornali, riviste, enti culturali) che, in Italia, in effetti, in larga misura propendono per il Pd o comunque per chiunque, sulla faccia della terra, respiri, che sia contro Berlusconi o lo critichi o possa essere utile per l’antiberlusconismo. Ma non bisogna dimenticare che le due grandi banche in questione e il Monte dei Paschi e qualche altro istituto sono controllati da Fondazioni, che dipendono da enti locali, regioni e organizzazioni politicizzate, in cui predomina la sinistra ex Pci ed ex Dc.

Gli amministratori delegati si adeguano ai loro azionisti di controllo. Questi debbono rendersi conto che meno fanno politica, meglio fanno il loro mestiere. Ma lo stesso vale per i leader politici rispetto alle banche. Massimo D’Alema, in una intercettazione telefonica con Fassino, segretario del partito, qualche anno fa gli chiese «abbiamo una banca?». Mal gliene incolse, Si trattava della Bnl che, invece, andò ai francesi. Le banche non devono fare politica e i politici debbono lasciar libere le banche di fare la loro attività con le regole del mercato, il principio vale in generale.

Ma vale in modo particolare nei periodi difficili, in cui vale più che mai l’avviso «maneggiare con cura».

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