Il triste autobiografo che si scriveva addosso

Due passioni dominarono la sua breve vita: la letteratura e le donne. E confuse la prima con le seconde. Anche quando si vendicò (a parole) di Umberto di Savoia

Ebbe due passioni: la letteratura e le donne. La letteratura gli serviva a imbambolare le donne e a piangersi addosso quando con le donne le cose andavano male. Ovvero, sempre. Era in eterne ambasce amorose poiché si ficcava nelle più disparate complicazioni. Si innamorava di sconosciute, trescava con le fidanzate altrui, si incapricciava di ninfette. Dopo essersi intrappolato, soffriva come un cane e pensava al suicidio.
Parlando di sé in terza persona, fece questa analisi della sua contorta personalità: «Non gli riesce di prendere la sua esistenza altro che come un gigantesco spettacolo che lui recita... terribilmente sul serio... Che potrà fare un uomo simile una volta innamorato? Lascerà capire di non essere più padrone di sé... che nulla per lui nella giornata vale quanto il momento dell’incontro». Fino a commettere l’errore fatale: «Si dimenticherà d’innamorare di sé la donna in questione, preoccupandosi invece d’innamorare di lei ogni molecola del proprio spirito». Già da questo accenno ci si può fare un’idea della sua distruttiva finezza.
Il Nostro fu un patito di due generi letterari, il Diario e la corrispondenza. Cominciò a scrivere lettere a 16 anni. Ne faceva le minute, che conservava, prima di trascriverle in bella copia per spedirle. Erano pezzi di bravura, talvolta più belli dei suoi celebri racconti, con cui accreditava l’immagine che voleva dare di sé. Era, infatti, un sesquipedale narciso.
Un giorno finì a letto con una sprovveduta ragazzetta. L’indomani le scrisse una lettera appassionata: «Mi sono inebriato a lungo del dono dolcissimo che ho avuto da te ieri... Ho sentito sotto la mia guancia il battere del tuo cuore profumato. Tu mi hai fatto poeta, o bambina... sei diventata mia, per sempre». Poi, con un voltafaccia da brigante, le raccomanda di tacere al fidanzato la loro avventura. Lo fa col tono più loffio che ci sia: «Tu non dovrai mai (tu sei tanto buona e non lo faresti mai) dare cagione di dolore a lui, distruggergli anche un sol sogno per amore di me... Piangerei di dolore e di vergogna se lui dovesse soffrire per noi». E la mollò.
Cuneese trapiantato a Torino dove il babbo era cancelliere del Tribunale, il giovanotto bighellonava fra teatri e varietà in attesa di laurearsi in Lettere. Vide in scena la soubrette Milly, che si diceva fosse l’amante del principe Umberto di Savoia, la pedinò e come uno zotico qualsiasi, le scrisse una patetica lettera amorosa. «Io la conosco signorina, l’ho seguita, l’ho osservata a lungo, senza mai osare avvicinarla. Ma è poco al confronto dell’immensità di ciò che vorrei conoscere di lei». Segue una pagina di «non riesco a dimenticarla», «ho lei negli occhi», ecc. per concludere: «Se un briciolo di quel che provo l’ho espresso... una sua riposta benevola sarebbe tutta la mia gioia. Tante cose avrò da dirle se lei sarà tanto buona da ascoltarmi». Milly, naturalmente, non rispose mai allo sconosciuto. Il giovanotto superò la frustrazione vendicandosi su Umberto, più bello e fortunato di lui. Lo fece da letterato, sbeffeggiando il principe in una lettera al suo amico Leone Ginzburg.
Il laureando era ospite in un castello della Val Pellice dove, per guadagnare quattro soldi, faceva da precettore al figlio del castellano. Durante un ricevimento di cui Umberto era l’invitato d’onore, lo osservò a lungo e con malanimo. «Eccolo nel viale - scrive a Ginzburg -. Dio, che passo ancestrale! Sembra un cammello». Poi, lo segue nel salotto e infierisce: «È appollaiato sul sofà... sta impettito come un tacchino... non si è nemmeno fatto la barba...» e prosegue per pagine, una malignità via l’altra.
Dopo essersi laureato con una tesi su Walt Whitman, il Nostro prese la tessera fascista per poter insegnare nei licei. Contemporaneamente, frequentava gli antifascisti di Torino. Tra costoro si innamorò pazzamente di una militante del Pci clandestino, Tina Pizzardo. Un amore che aveva un peccato originale: Tina era la fidanzata di Altiero Spinelli che languiva nel carcere di Civitavecchia accusato di sovversivismo. Chi la fa l’aspetti e il Nostro per questa e le altre frequentazioni fu arrestato. Il regime lo inviò al confino a Brancaleone Calabro sul Mar Ionio. Ci restò un anno immaginando di essere Ovidio esiliato sul Mar Nero. Quando tornò, Tina, infedele a lui come a Spinelli, stava sposando un altro. La delusione fu feroce e il Nostro non si riprese più.
Nel dopoguerra, si iscrisse al Pci. Ma lo interessava l’amore, non la politica. Ebbe altre storie sempre più infelici. Un’amicizia amorosa con Fernanda Pivano, come lui traduttrice dall’americano. Un passione per Bianca Garufi con la quale scrisse un romanzo a quattro mani, Fuoco grande. A lei dedicò il celebre Dialoghi con ** (il nome Bianca grecizzato). L’ultima fiammata, un mese prima di morire per una ragazzina, Romilda Bollati, che negli anni ’80 diventerà moglie del dc Toni Bisaglia.

«Ti voglio un falò di bene - le scrisse -. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela».
Morì a 42 anni con una manciata di barbiturici lasciando scritto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
Chi era?

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