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La triste esultanza del papà: "Elu ce l’abbiamo fatta, ha vinto lo Stato di diritto"

La reazione di Beppino Englaro: "L’inferno sta per finire Grazie giudici. Ora le sue volontà saranno rispettate. Sono sedici anni che ripeto le stesse cose. Ho sempre lottato perché mia figlia avesse giustizia"

La triste esultanza del papà: "Elu ce l’abbiamo fatta, ha vinto lo Stato di diritto"

Lecco - L’ha strappata dal limbo della non vita. L’ha accontentata. Le ha ridato la libertà. Di decidere, di morire, di scappare via da una vetrina dove tutti parlavano di lei come di una bestia rara alla zoo. Ha fatto rispettare la sua volontà: «Ce l’abbiamo fatta Elu, ce l’abbiamo fatta».

Ce l’ha fatta, Beppino Englaro, a far capire che è contro natura tenere in vita un «purosangue della libertà» che non voleva grigi nella sua esistenza. Bianco: vita. O nero: morte. Sedici anni, diciassette il prossimo gennaio, per far capire il concetto, che Eluana in quella condizione - stato vegetativo permanente - non avrebbe mai accettato di stare. Una tortura senza fine, con la beffa finale, il mese scorso, una morte che stava per arrivare a causa di un’emorragia uterina. E tutti a parlare delle mestruazioni di Eluana, un affronto per la ragazza fiera e riservata che era prima dell’incidente. Non poteva finire così. La donna diventata simbolo del diritto a vivere o morire non poteva andarsene senza che una decisione fosse presa. Ora la decisione c’è. La fine è solo questione di tempo, ma non sarà più un singhiozzare di rinvii.

Ha vinto suo papà, con la mamma Saturnia rimasta sullo sfondo, ma solo perché consumata dal dolore. Ora che la battaglia è finita, però, le parole si fermano in gola. Non c’è niente da festeggiare. Beppino Englaro è nervoso come all’inizio, quando ancora nessuno capiva bene cosa volesse quell’uomo. Magro, nervoso, scavato. Con le parole che gli si prosciugano in bocca, perché anche ora nessuno può comprendere fino in fondo quanto sia stata grande la sofferenza di questo padre che lottava in nome e per conto della figlia. «Lo sapete come la penso. Sono sedici anni che ripeto le stesse come un disco rotto». Pensa che «l’inferno stia per finire» e dice: «Ce l’abbiamo fatta, Elu, ce l’abbiamo fatta». Sorride. È raro che lo faccia, la piega della bocca è sempre verso il basso, il segno dell’amarezza.

Ora invece lo fa. Un sorriso. Aperto, sincero, come se fosse ancora rivolto all’Eluana dei 20 anni, quella ragazza bellissima e piena di corteggiatori, che studiava lingue e voleva girare il mondo, non quella creatura ridotta a un ramo secco nei 6.126 giorni trascorsi alla casa di cura Beato Talamoni di Lecco, dal 18 gennaio 1992, giorno dell’incidente. Tiene il conto, suo papà. Tutti i giorni trascorsi con la vista della figlia che non reagiva a nessuno stimolo. Una prigione. Per lui e per lei. I capelli corti, lo sguardo perso nel vuoto, il corpo immobile. Un supplizio, vederla in quello stato, anche se ad accudirla, nutrirla, lavarla, sono sempre state le suore. «Il massimo delle cure con il peggiore dei risultati», continuava a ripetere Englaro. A chi gli diceva: «se ci tiene così tanto a farla morire lo faccia lei», rispondeva: «Io farò sempre tutto alla luce del sole».

«È finita», annuncia ora la Cassazione. Eluana può volare via, uscire dal limbo di non vita. Eluana può morire e suo padre smettere di tenere il conto. Non si può far festa però, perché sempre di dolore si parla. E lì lui non vuole arrivare. Non vuole parlare di funerali, di cosa proverà, di cosa succederà quando vedrà il cuore della figlia che smette di battere. «A me interessava solo che venisse rispettata la sua volontà». Lo sguardo è teso, la voce rotta: «Mia figlia aveva detto che, se fosse rimasta in coma, avrebbe voluto morire. Ho lottato perché la sua volontà fosse rispettata». Sedici anni fa lo prendevano per pazzo. Un uomo insensibile, che farneticava di diritti e si alterava ogni volta.

Passo dopo passo, conquistando il rispetto anche di chi lo pensava un folle, facendo passare dalla sua parte anche i medici e i giudici, è riuscito a farsi dare ragione: «Siamo in uno Stato di diritto». Questo dice. Anche alla fine della storia si aggrappa alle norme. L’email di Beppino Englaro porta ancora traccia del suo vecchio mondo, moquette e arredi d’interni. Aveva un bel lavoro, una bella famiglia, prima dell’incidente. Dopo ha visto solo ospedali e libri di medicina, testi di giurisprudenza e aule di tribunali.

Nella sua vita solo colloqui con i medici e lettere alle istituzioni, interviste, spiegazioni, attacchi e critiche e due avvocati, Franca Alessio e Vittorio Angiolini, che l’hanno aiutato nella sua battaglia: «Grazie ai giudici», ripete. Grazie alla Cassazione. È fatta. Arriveranno altre critiche, ma Beppino Englaro ora ha in mente solo una cosa: levare le briglie al suo purosangue.

E liberarla.

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