Chi trova un amico trova un tesoro. Ma chi ha trovato il tesoro del «Cigno nero» troverà, sicuramente, molti amici. Quello scoperto negli abissi 40 miglia al largo della punta sud occidentale dellInghilterra (il luogo preciso, per ovvie ragioni, resta top secret) è infatti il «tesoro dei tesori»: il bottino più ricco della storia dellarcheologia subacquea, con 17 tonnellate di pezzi doro e argento e 500mila dobloni, per 500 milioni di dollari. Tutto merito dei «Rambo» marini della Odissey Marine Exploration di Tampa che hanno già riportato a terra alcuni pezzi prelevati dal ponte del veliero: un vascello di epoca coloniale naufragato nel 17° secolo di cui si sa poco o nulla. Di certo si sa solo che loperazione «Cigno nero» prenderebbe il nome dal simbolo di uno dei dobloni recuperati, il cui argento reca appunto limmagine incisa di un cigno nero.
Il responsabile della Odyssey, Gregg Stemm, vola alto: «Un aereo con centinaia di casse contenenti mezzo milione di monete è già atterrato in una zona segreta degli Stati Uniti». Dobloni che nessuno ha ancora avuto il piacere di vedere, fatta eccezione per lesperto in numismatica, Nick Bruyer, già «certissimo dellautenticità dei reperti». Il professor Bruyer sprizza felicità: «Siamo di fronte a una scoperta senza precedenti. Non sono a conoscenza di qualcosa neppure lontanamente paragonabile». La più importante scoperta di questo tipo risale al 1985, quando un ricercatore americano considerato una sorta di pioniere in questo genere di attività, Mel Fisher, trovò nelle acque al largo della Florida i resti del galeone spagnolo «Nuestra Señora de Atocha», naufragato nel 1622: una scoperta che fruttò a Fisher 400 milioni di dollari e un «mare» di amici. Gli storici credono tuttavia che continui a giacere sul fondo degli oceani (si presume al largo di Gibilterra) il veliero, «Her Majesty Sussex»: trasportava nove tonnellate di pezzi doro e naufragò nel 1694. Non è mai stato ritrovato. Come ogni nave fantasma che si rispetti. Del resto il sogno di impadronirsi dei tesori nascosti in fondo agli oceani è unastrazione riconducibile allambizione umana di strappare alla natura ciò che non le «compete». Perché se è vero che il mare è il «legittimo proprietario» del prezioso forziere ambientale che vive in esso, è altrettanto vero che tutti i beni a bordo delle navi colate a picco sono «nostri». Peccato che essi siano ancora intrappolati tra gli abissi, in attesa che sub (onesti o disonesti, ma comunque temerari) vadano a recuperarli. Nel Mediterraneo, ad esempio, «dormono» insabbiati a centinaia di metri di profondità galeoni spagnoli, velieri britannici, vascelli fenici, egiziani, greci, romani: tra loro alcuni erano certo carichi di oro sottratto alle colonie; inoltre le imbarcazioni che seguivano la rotta da Manila al Sudamerica trasportavano sicuramente porcellane asiatiche e altri oggetti preziosi. Va però precisato che gli eventuali relitti di quelle navi - risalenti allera precristiana - interesserebbero più gli archeologi che non i cacciatori di tesori. Eppure ci sono ancora «tombaroli» subacquei che si sentono prudere le pinne appena odono pronunciare le magiche parole «tesori sommersi». Sarà per questo che ad Atene, nascosta in un anonimo ufficio, si cela la mappa più ambita da ogni avventuriero: una rappresentazione grafica dei giorni moderni che individua in modo dettagliato più di 1.000 antichi naufragi ancora sommersi sotto i mari greci. Per secoli - si legge nel sito www.ekathimerini.com - generazioni di esploratori marini hanno scandagliato le profondità attorno alla terraferma greca e alle sue isole, ma solo negli ultimi anni lo sviluppo di nuove tecnologie ha permesso agli archeologi di individuare con precisione centinaia di relitti. Ma alcuni dei ritrovamenti-chiave sono avvenuti nel modo tradizionale, ad opera di ignari pescatori.
Nino Materi
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