Cultura e Spettacoli

"True Detective" e l'esistenzialismo del profondo Sud

"True Detective" e l'esistenzialismo del profondo Sud

Se Edward Hopper avesse avuto la macchina da presa anziché tele e pennelli, probabilmente avrebbe filmato uno scenario molto vicino a quello di True Detective. Chiunque ami l'America, quella di provincia, lontana dalle grandi città, pochi elementi appena accennati nel paesaggio, non può non apprezzarne quegli stereotipi, che molti considerano dei limiti, transitati dalla letteratura alle arti visive, dal cinema alla televisione. È opinione comune che True Detective sia una delle serie che più ha appassionato il pubblico, dal culto al successo, per la capacità di virare una semplice crime story in una più complessa commedia umana. Nella terza stagione, otto episodi ora in programma su Sky Atlantic (si raccomanda ancora una volta la versione originale) assistiamo a un ritorno alle origini, nelle vene dell'America rurale in cui tutto è dilatato, i tempi molto più lenti, dove la riprese vengono distillate con meticolosità, citando spesso i grandi classici del cinema. Colori bellissimi, colonna sonora meravigliosa curata da T Bone Burnett, vene di disperato e malinconico blues: gli ingredienti di contorno ci sono tutti.

In quanto alla storia, l'asse temporale gira su tre momenti diversi partendo dal 1980, quando spariscono misteriosamente due fratellini e uno viene trovato morto, passando al 1990, quando il caso si riapre, e giungendo al 2015, per un'ulteriore svolta imprevista. Mahershala Ali, sorprendente attore protagonista di Green Book, interpreta alla grande i tre momenti della vita del detective, nero, tormentato, in preda ad ansie familiari. Fa coppia con Stephen Dorff, più violento, ovviamente solo, altrettanto bravo e convincente. Ancora una volta i risvolti psicologici della coppia di investigatori prevalgono sul tipico meccanismo del poliziesco d'azione. E forse i dialoghi talora ne risentono, risultando appesantiti e troppo lunghi. Ma è giusto un dettaglio. Sarà l'abitudine allo stile secco e asciutto del cinema americano classico, che per chi scrive resta comunque il paradigma.

Un duo che ne sostituisce altri molto amati, Matthew McConaughey e Woody Harrelson della prima stagione, Colin Farrell e Rachel McAdams della seconda. Una serie non seriale, dunque, reinventata così dal geniale creatore Nic Pizzolatto. Ogni volta c'è qualcosa di diverso, eppure siamo sempre nello stesso familiare ambiente. Gli investigatori di True Detective sono sempre personaggi il cui destino è segnato dai casi, lo sviluppo ne condiziona l'esistenza, gli affetti, gli equilibri mentali andati perduti.

Un crime esistenzialista che attinge a piene mani da Chandler, da Faulkner, dal male di vivere di molta letteratura «made in Usa» che resta imprescindibile e ti si attacca addosso come il fango e il sangue del profondo Sud.

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