TURCHIA La matrioska che racchiude mille civiltà

Che cosa viene in mente quando si dice Turchia? Si pensa a un Paese islamico che sta bussando alle porte dell’Unione Europea. Oppure si ricorda il vecchio grido «mamma li Turchi», quando all’orizzonte apparivano le navi saracene (e tralasciamo il fatto che i pirati più sanguinari erano magari albanesi o italiani convertiti all’Islam). O magari la fantasia ritorna a figurarsi esotiche scene di harem, eunuchi e odalische discinte ai piedi del sultano.
Ma sono molte altre le immagini che dovremmo aggiungere alla parola Turchia. Sul territorio dell’odierna Repubblica turca si sono succedute civiltà di ogni genere: è nata l’agricoltura; sono sorte le prime città; le mura di Troia si sono levate a dominare lo stretto dei Dardanelli; l’impero degli Ittiti è cresciuto fino ad arrivare al punto di sfidare i faraoni d’Egitto; è nata la storiografia, tenuta a balia dal greco d’Asia, Erodoto, nativo di Alicarnasso, odierna Bodrum; l’impero romano si è costruito una nuova capitale sulle rive del Bosforo: Costantinopoli, nuovo nome dell’antica Bisanzio greca che poi diverrà Istanbul. Insomma: quando infine sono arrivati, dalle steppe interne dell’Asia, i turchi veri e propri, prima con la dinastia Selgiuchide e poi con quella Ottomana, l’Anatolia era già una terra su cui era depositato uno strato plurimillenario di civiltà. I turchi vi aggiunsero la potenza di un nuovo impero, assai più tollerante e illuminato, checché se ne possa pensare oggi, di molti Stati europei del passato anche recente.
La Turchia, dunque, è questa matrioska che racchiude una civiltà dentro l’altra. E si capisce perché possa intitolarsi semplicemente «Turchia: 7000 anni di storia» la mostra inaugurata ieri a Roma, al Quirinale, da due presidenti della Repubblica: Giorgio Napolitano e il turco Ahmet Necdet Sezer. Le opere, esposte fino al 31 marzo, non sono molte, 43 in tutto. Ma vengono dai più grandi musei turchi, il Museo delle civiltà anatoliche di Ankara, il Topkapi, il Museo islamico e lo straordinario Museo archeologico di Istanbul. E ancora più rilevante è il valore politico e simbolico dell’evento. Un’ottima occasione per sapere di che cosa parliamo, almeno dal punto di vista storico e culturale, quando parliamo di Turchia. E, forse, anche per capire qualcosa di più del mondo di oggi.
Magari ricordando le vicende dei sultani selgiuchidi che, nell’XI secolo, tentarono di imporre l’ortodossia islamica sunnita a Bagdad combattendo duramente gli sciiti. L’Occidente, come è noto (o forse non è noto), è nato in Oriente. La città, ancora oggi fenomeno chiave della civiltà occidentale, è un prodotto dell’Asia. E la più antica città che si conosca è appunto Çatal Höyük, nella pianura di Konya, che risale a quasi diecimila anni fa. La statuetta preistorica della Dea Madre, il più antico tra i pezzi esposti al Quirinale, testimonia i culti della fecondità diffusi in questa civiltà di agricoltori neolitici.
Il vertiginoso avvicendarsi delle religioni, del resto, è un’altra dimensione della storia anatolica. Dalla statuetta della Dea Madre si passa, nella mostra, all’icona bizantina di Santa Eudocia, dell’IX secolo, e poi al Corano ottocentesco tempestato di rubini e diamanti. Mentre un sigillo preistorico in terracotta documenta la nascita precoce di un forte potere centrale, che impone il suo segno, anche materialmente, sul movimento degli uomini e delle merci. Se c’è qualcosa che lega tra loro i settemila anni di storia della Turchia, forse, è proprio il fatto che sia stata quasi sempre una storia di grandi imperi. Imperi che vogliono essere ecumenici, universali. A volte, come nel caso dell’impero persiano o del mosaico multietnico creato da Alessandro Magno, la Turchia ne è una tessera. Altre volte, invece, il suolo turco è l’epicentro di un imperialismo di grande respiro, dal dominio degli Ittiti a quello degli Ottomani, passando per la rinascita della seconda Roma a Costantinopoli.
Dai primi del Cinquecento in poi, mentre l’Europa è dilaniata da guerre dinastiche e religiose, la mezzaluna dei sultani ottomani si estende su un territorio che va da Belgrado a Bagdad, da Marrakesh alla Mecca. Istanbul diventa un grande polo di attrazione per le intelligenze e la manodopera europee. Il pittore veneziano Gentile Bellini va al palazzo imperiale per ritrarre il sultano Maometto II, il conquistatore di Bisanzio, che immortalò anche in un celebre quadro, ora conservato alla Pinacoteca di Brera, tra la folla che ascolta la predica di San Marco ad Alessandria d’Egitto. Bisanzio fu conquistata, a sua volta, grazie ai cannoni dell’ingegnere ungherese Urban, mentre il sultano veniva assistito dal suo medico personale, l’ebreo italiano Jacopo da Gaeta.
Una sostanziale tolleranza caratterizzava i rapporti tra il Sultano e i sudditi non musulmani. L’amministrazione ottomana divideva i sudditi in gruppi (millet) in base all’appartenenza religiosa. Quando iniziò l’esodo degli ebrei dalla Spagna, per molti di loro l’approdo più naturale fu l’impero ottomano. Un censimento del tempo di Solimano il Magnifico testimonia che Istanbul nel Cinquecento vantava 46.635 nuclei famigliari musulmani, ma anche 25.252 famiglie cristiane e 8.570 famiglie ebree. Quello turco, del resto, è sempre stato un Islam particolare. Come insegna il caso della confraternita mistica dei dervisci mevlevi, fondati a Konya, l’antica Iconium, nel XIII secolo dal grande poeta Rumi, all’insegna della fratellanza spirituale tra tutti i credenti. I dervisci la testimoniarono anche aiutando gli armeni perseguitati dal governo laico di Kemal Ataturk. E, qualche decennio prima, fu astronomo di corte dei selgiuchidi anche un altro grande poeta, il persiano Omar Khayyam, che cantava il vino e l’ebbrezza.
Ovviamente l’impero ottomano non era un mondo idillico. Era un grande impero che, per sopravvivere come tale, doveva guardare al di là delle differenze etniche e religiose. E fu infatti l’esplosione dei nazionalismi, importati da ceti dirigenti educati in Europa, a corrodere il sultanato. Gli europei sostennero i particolarismi e le forze centrifughe all’interno del mondo ottomano, come ricorda l’emblematica figura del colonnello T.E. Lawrence, cioè Lawrence d’Arabia, che guidò la rivolta degli arabi contro i turchi (attenzione: mai dire che i turchi appartengono al «mondo arabo»!).

Nei primi decenni del Novecento, il genocidio degli armeni e l’esodo forzato dei greci dall’Anatolia furono l’esito estremo di questa isteria nazionalista generalizzata che contrappose popoli ormai abituati a una secolare convivenza. Il corrosivo germe nazionalista venuto dall’Europa, più di ogni fanatismo religioso, ha calato un sipario di sangue sulla storia dell’impero ottomano.

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