Turchia nell’Ue, i conti non tornano

Livio Caputo

La bizzarra storia del dirottatore turco convertito al cristianesimo che chiede l’aiuto del Papa contro le autorità del suo Paese non influenzerà, probabilmente, il rapporto interinale che la Commissione di Bruxelles deve presentare tra un mese sui negoziati per l’adesione di Ankara all’Unione europea. Qualche impatto sul rapporto avrà invece senz’altro la reazione fortemente negativa - e ancora tutt’altro che spenta - delle autorità civili e religiose turche al discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, che dimostra, se non altro, come nella valutazione dei pro e dei contro la questione religiosa non possa essere ignorata.
Ma anche senza queste due vicende, possiamo dire con certezza che a un anno esatto dal sofferto «sì» dell’Unione europea all’apertura delle trattative un loro esito favorevole è ancora più improbabile di quanto non fosse all’inizio. Se non fosse per il timore di accelerare quella «deriva islamica» denunciata proprio due giorni fa dal comandante supremo delle Forze armate, generale Buyukanit e di gettare la Turchia nelle braccia dei fondamentalisti, sarebbe forse più onesto prendere atto che, anche protraendo i negoziati per i previsti dieci-dodici anni, difficilmente le incompatibilità di fondo emerse nella prima fase potranno essere superate. Oltre tutto, se anche il Consiglio europeo dovesse alla fine prendere - in nome della realpolitik - una decisione positiva, ci penserebbero i referendum già programmati in vari Paesi, tra cui la Francia, a vanificarla; e le conseguenze geopolitiche potrebbero essere anche più devastanti di una interruzione concordata dei negoziati sulla base di dati di fatto.
Al momento, tutti i segnali politici vanno nella stessa direzione. In Germania è andata al potere Angela Merkel, da sempre ostile a una piena adesione della Turchia all’Unione e favorevole, invece, a una «relazione speciale» di cui Ankara non vuole neppure sentir parlare. In Francia, nella prossima primavera dovrebbe assurgere alla presidenza Nicolas Sarkozy, che, in un recente discorso dedicato alla sua visione dell’Europa si è pronunciato contro il proseguimento del negoziato. A Strasburgo, il Parlamento europeo ha approvato un rapporto estremamente critico dello stato dei diritti umani in Turchia, dei rapporti con la minoranza curda e del rispetto della libertà di opinione, con particolare riguardo al famigerato articolo 301 del codice penale che punisce chi attenta alla «identità turca» (e si permette di evocare il genocidio degli armeni). A Bruxelles, il presidente Barroso ha detto che dopo l’ingresso di Romania e Bulgaria il prossimo 1 gennaio, il processo di allargamento dell’Unione dovrà subire una battuta d’arresto. In ogni caso, nessun progresso è possibile fino a quando il governo Erdogan non manterrà l’impegno di riconoscere Cipro, Paese membro a pieno titolo della Ue, e non stabilirà normali rapporti con Nicosia.
Contestualmente, hanno ripreso forza tutte le obiezioni all’adesione della Turchia che avevano quasi fatto saltare il negoziato prima ancora che iniziasse: i pericoli connessi all’ingresso di 70 milioni di musulmani (ma nel 2025 saranno 90, facendone il Paese più popoloso dell’Unione), di cui una percentuale crescente simpatizza per i fondamentalisti; i 28-30 miliardi di euro che sulla base delle regole attuali la Turchia costerà alle casse dell’Unione, sotto forma di fondi agricoli e strutturali, sottraendoli agli altri Paesi; l’enorme divario del reddito pro-capite, che oggi in Turchia è un quarto della media Ue e, anche tenuto conto di un tasso di sviluppo superiore, impiegherà un buon secolo a mettersi in pari; infine, la virtuale assenza della libertà religiosa, che ha ridotto la comunità cristiana a poche decine di migliaia di individui e che sfocia spesso in episodi di intolleranza, come il recente assassinio di un sacerdote italiano a Trebisonda. Nel maggio scorso, è uscito a Istanbul anche un libro intitolato Assassinio di un Papa, che prima ancora delle recenti polemiche preconizzava l’uccisione di Benedetto XVI durante il suo imminente viaggio in Turchia.
Se da un lato si sono irrigiditi gli europei, dall’altro si sono disamorati i turchi. All’entusiasmo iniziale è subentrato il risentimento per i continui «moniti, critiche e manovre ritardanti» di Bruxelles, per cui il consenso popolare per l’adesione è sceso dall’84 a meno del 50 per cento: i turchi, che erano favorevoli all’Europa soprattutto perché speravano in un miglioramento del loro tenore di vita, si stanno gradualmente rendendo conto che la strada di Bruxelles è lastricata di sacrifici, rinunce ed anche umiliazioni, e probabilmente non porterà mai a quella libera circolazione della manodopera che alletta i milioni di giovani disoccupati. Parallelamente ai rapporti con gli europei, si sono sensibilmente raffreddati anche quelli con gli americani, che pure continuano a insistere perché Bruxelles spalanchi le porte ad Ankara. Come denunciano i suoi stessi militari, la Turchia è oggi un Paese in bilico tra spinte contraddittorie, su cui pesa anche una preoccupante intensificazione di attentati.

Perderla, sarebbe certamente uno smacco dalle pesanti conseguenze; ma il prezzo per mantenerla nel campo occidentale si presenta, al momento, davvero molto alto.

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