nostro inviato a Pescara
Che parabola per Ottaviano Del Turco, l'ex presidente della commissione parlamentare Antimafia. Rinchiuso come un capocosca in 41 bis. Guardato a vista in un carcere di massima sicurezza, quello di Sulmona, abitato da incalliti camorristi e affiliati a Cosa nostra. L'ex paladino dell'organismo bicamerale d'inchiesta sulla criminalità organizzata ha trascorso la sua prima notte da recluso in isolamento in una cella non lontana dal reparto che fino a qualche mese fa ospitava Salvuccio Riina, figlio del capo dei Capi, Totò, liberato tra le polemiche per decorrenza termini.
Del Turco è qui. Tranquillo, relativamente fiducioso nell'immediato futuro, in attesa dell'interrogatorio. Ringrazia per il trattamento che le guardie gli hanno riservato. Ha avuto anche il tempo di scherzare con i secondini: «La vita è strana, precedentemente ero entrato in carcere per ben altri motivi, istituzionali ovviamente, quando presiedevo l’Antimafia. Chi l’avrebbe mai detto...».
Già, chi l'avrebbe detto che il governatore finisse nel carcere dei mafiosi, del killer pentito di Fortugno, dei suicidi in serie (dal sindaco di Roccaraso, Camillo Vicentini, arrestato per tangenti, fino al direttore dello stesso penitenziaro, Armida Miserere, che si è tirata un colpo di rivoltella in fronte).
In quest’angolo isolato d'Abruzzo, popolato di malavitosi impenitenti, il Governatore ieri ha scambiato quattro chiacchiere prima con Pierluigi Mantini, segretario della commissione Giustizia della Camera, e poi con Marcello Pera, di Forza Italia. A entrambi ha detto di «non provare alcun rancore per gli inquirenti» perché «dà per scontato» di riuscire a provare la propria estraneità ai fatti contestati. Due soli i timori. Uno può sembrar paradossale («oggi dovevo essere a Roma a discutere con i rappresentanti del governo di problemi legati alla sanità della regione, sono molto preoccupato perché la situazione della sanità abruzzese che si doveva affrontare nella conferenza Stato-Regioni, è gravissima»); l'altro dà invece l'idea di come il Governatore sia mentalmente pronto anche ai tempi lunghi («mi sono portato da casa una decina di libri, purtroppo ancora non me li hanno fatti entrare in cella e non capisco perché»).
In una frase il presidente della Regione sintetizza le due preoccupazioni: «Non mi spaventa l'idea di una custodia cautelare lunga bensì che la Regione possa venire commissariata, almeno per quanto riguarda la sanità».
Non lo dichiara espressamente, ma ai suoi interlocutori Del Turco ha lasciato intendere che un incidente di percorso come quello che gli è capitato è nell'ordine delle cose anche per chi fa politica in modo sano. Un rischio del mestiere, da prendere con filosofia. «Non ho paura del carcere, ci mancherebbe. Sono innocente. Quello che mi manca davvero – dice l'esponente del Pd – sono i miei cari, i miei nipotini soprattutto, i miei cani e le lunghe passeggiate nei dintorni di Collelongo».
Nel frattempo, mentre la Procura procede con gli interrogatori e insiste nella caccia alle tangenti in cassette di sicurezza disseminate nella regione, la difesa degli imputati si prepara alla battaglia. Gli avvocati stanno pianificando una strategia comune per il contrattacco, tecnico e mediatico. Per ora si limitano a criticare l'eccessiva spettacolarizzazione della procura e delle indagini della Guardia di finanza che si sono concentrate, essenzialmente, sulle dichiarazioni dell'imprenditore Vincenzo Angelini, considerato troppo presto un concusso – secondo le difese – quando invece sembra apparire a tutti gli effetti un corruttore. «Interessato a trarre benefici giudiziari – sbotta un legale – solo quando sembrava ormai chiaro a tutti, Angelini compreso, che per lui si stavano per spalancare le porte del carcere». Nel mirino della difesa, poi, le modalità sospette con cui Angelini (all’insaputa degli inquirenti?) ha condotto in proprio le indagini, mettendosi un registratore in tasca, facendosi fotografare dall’autista, anziché dal personale di polizia giudiziaria, mentre distribuiva tangenti a funzionari e politici.
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