Tutte le contraddizioni di Prodi sul covo del sequestro Moro

Oggi nessuno più crede al racconto del Professore sulla seduta spiritica in cui sarebbe emerso il nome di dov’era una delle prigioni delle Br

Giancarlo Perna

L’episodio più ambiguo nella sfuggente personalità di Romano Prodi è la celeberrima seduta spiritica incentrata sul sequestro Moro.
L’Italia è in subbuglio per il leader dc volatilizzato e Prodi che fa? Chiede lumi agli spiriti. Accantoniamo gli interrogativi su una simile iniziativa presa da un uomo pio e praticante, e veniamo a quel 2 aprile 1978.
Sono trascorsi 17 giorni, numero cabalistico, dall’agguato di Via Fani. È domenica e 17 persone, numero cabalistico, sono riunite nella casa di campagna di Alberto Clò, docente bolognese, futuro ministro nel 1995 del governo Dini. Il rustico è a 30 km da Bologna, in una località isolata, detta Zappolino.
All’ora di pranzo, i commensali sono 13, numero cabalistico: Romano e Flavia Prodi, Fabio Gobbo (allievo di Romano), Adriana, Alberto, Carlo e Licia Clò, i padroni di casa, Francesco e Gabriella Bernardi, Emilia Fanciulli e tre bambini. Finito il pasto, le signore sparecchiano e i marmocchi si mettono a giocare. Degli altri, qualcuno ha l’idea di evocare le anime di Don Luigi Sturzo e di Giorgio La Pira per saperne di più sulla sorte dell’ostaggio delle Br. Adocchiano un tavolino quadrato, ci poggiano sopra un foglio con le lettere dell’alfabeto e cominciano a interrogare i defunti tenendo le mani sul piattino. Dopo tentativi infruttuosi, il piattino comincia a zigzagare sul foglio. Escono diverse località in cui Moro potrebbe essere prigioniero. Nomi banali, perché noti, come Viterbo e Bolsena, e quindi luoghi poco adatti a un nascondiglio. Poi, all’improvviso, muovendosi con decisione, il piattino scrive G-R-A-D-O-L-I. Nome mai sentito dai presenti che ignorano se la località effettivamente esista. Prima di verificare, ripetono il tentativo e il piattino conferma, Gradoli. Poi, di nuovo: Gradoli. Lo farà una ventina di volte. Nel corso di questa reiterazione, giungono e si uniscono alla compagnia i quattro ritardatari: Mario Baldassarri, allora docente a Bologna, oggi viceministro dell’Economia, sua moglie Gabriella e i due pargoli. Ora nella casa di Zappolino sono in 17.
«Era una domenica uggiosa - mi ha raccontato Baldassarri in un’intervista un anno e mezzo fa -. Da Bologna, raggiunsi con moglie e bambini, la casa di campagna di Alberto Clò, dove c’erano già Prodi e gli altri... Li trovai seduti con le dita su un bicchierino che sembrava muoversi da solo. Pensai a uno scherzo per farmi paura. “Mi credono un ragazzo di campagna”, mi dissi. Cominciai a girare attorno al tavolino guardando sopra e sotto per scoprire il trucco. Ma facevano sul serio».
«Chissà che silenzio solenne», ho detto, interrompendo viceministro.
«Una bolgia. Dalla cucina rumore di stoviglie, i bambini zampettavano, uno dei presenti voleva fare le salsicce sul prato. Intanto il bicchierino zigzagava sul tabellone e alla domanda: “Dov’è Moro?“ dette la clamorosa risposta: “Gradoli”. E proprio in Via Gradoli a Roma, come si seppe mesi dopo, Moro era prigioniero delle Br. Me ne stupisco ancora». Questo il ricordo a distanza di Baldassarri, di cui riparleremo.
Ma torniamo a Zappolino, 28 anni fa. Gli spiritisti sospendono la seduta, consultano una carta stradale del Lazio e rintracciano Gradoli. È un comune sulle colline di Viterbo. Esiste davvero! Lo sconcerto è immenso. Tolgono dal tavolino il foglio con l’alfabeto, spianano al suo posto la carta e riprendono il piattino (il bicchierino, secondo la testimonianza di Baldassarri). L’arnese si muove subito sulla pianta del Lazio e va sicuro sul nome Gradoli. Due, tre, quattro volte. Il responso di Don Sturzo e La Pira è ormai incontestabile.
L’indomani, 3 aprile, un Prodi eccitatissimo entrò trafelato nella sua Facoltà, quella di Scienze politiche del’'Università di Bologna, iniziando a raccontare l’episodio domenicale a tutti quelli che incontrava. Ma appena scorse il professore di Criminologia, Augusto Balloni, non solo gli riferì della seduta, ma gli fece una proposta che lo lasciò di stucco.
Balloni quella richiesta non l’ha mai digerita. «Prodi - rievocò anni dopo - è una persona anche capace di pensare che i suoi stessi colleghi sono dei poveri idioti. Durante il sequestro... qualcuno deve avergli dato la prova di essere in contatto con Moro indicandogli la sede della prigione... Poi con un’impudenza che non ho mai scordato, si rivolse a me e disse: “Tu sei un criminologo di fama. Vai dai magistrati e parla di questa cosa di Gradoli. Però non ti permetto di citarmi come fonte”. “Al massimo andrò a Sant’Isaia dei matti (l’ex manicomio di Bologna)”, ribattei. Ma come si può ipotizzare che io vada da un magistrato... citando una fonte che vuole restare anonima, che cita un’altra fonte che non si sa chi sia?». Dunque, per Talloni, Prodi stava mentendo. Aveva saputo di Gradoli da qualcuno vicino alle Br e poi, per coprirne l’identità, aveva inscenato la seduta spiritica. Il criminologo fu il primo di una lunga serie di increduli.
Il giorno dopo, 4 aprile, Prodi è a Roma, in Piazza del Gesù, sede della Dc. Nel cortile del palazzo parlotta con Umberto Cavina, portavoce del segretario del partito, Zaccagnini. Gli racconta della seduta e di Gradoli, spiega che era suo dovere riferire, che però di queste cose non si intende, non sa che altro fare e che insomma ci pensasse lui, Cavina, a inoltrare la notizia a chi di dovere. Per quanto lo riguardava, non vedeva l’ora di lavarsene le mani. L’interlocutore ringrazia Prodi che, lanciato il sasso, esce di scena. Cavina corre da Luigi Zanda, oggi senatore della Margherita, e fa la cosa giusta. Zanda era il segretario di Cossiga, cioè del ministro dell’Interno, supremo responsabile dell’indagine e il più adatto a valutare l’informazione.
Il resto è noto. Il 5 aprile, polizia e carabinieri si precipitano nel paese di Gradoli e non trovano nulla. Il 18 aprile scoprono invece un covo brigatista in Via Gradoli a Roma, fino a poco prima la prigione di Moro. Con l’equivoco tra via e paese, di Moro si persero le tracce fino all’8 maggio, quando il corpo fu rinvenuto nel bagagliaio di un’auto ferma in Via Caetani.
La vicenda era chiusa. Gli interrogativi rimanevano aperti. La seduta spiritica prodiana è stata vagliata da due commissioni parlamentari d’inchiesta. Davanti alla prima, del 1981, Prodi testimoniò: «Era un giorno di pioggia, facevamo il gioco del piattino... era la prima volta che vedevo cose del genere. Uscirono Bolsena, Viterbo, Gradoli... Ho ritenuto mio dovere riferire. Se non ci fosse stato quel nome sulla carta, oppure fosse stato Mantova o New York, nessuno avrebbe riferito. Il fatto è che il nome era sconosciuto e allora ho riferito immediatamente».
Alberto Clò, il padrone di casa, precisò a proposito del piattino che «era di una tazzina da caffè, una di quelle in cui avevamo bevuto il caffè prima». Fabio Gobbo, l’allievo di Romano e futuro membro dell’Antitrust, parlò invece di «un posacenere» che girava «toccando le lettere sul foglio di carta».
A essere pignoli, le contraddizioni non mancano. Per Prodi a muoversi è «un piattino», per Gobbo «un posacenere», per Baldassarri, «un bicchierino». Inoltre, Prodi dice che quella domenica «era un giorno di pioggia», per Baldassarri era «una giornata uggiosa». Antonio Selvatici, biografo di Prodi, ha condotto sul punto un’indagine fulminante. Consultando i dati del Servizio idrografico della stazione pluviometrica di Monte San Pietro a 1,2 km da Zappolino, ha scoperto che «quel giorno, in quella zona, in quelle ore... non cadde una goccia». Quanto basta per chiedersi se in quella domenica campagnola gli ospiti abbiano visto lo stesso film. Anzi, per dubitare del film stesso.
La seconda indagine parlamentare è del giugno 1998. L’intento della Commissione, presieduta dal ds Giovanni Pellegrino, era escludere che facendo il nome Gradoli si volessero in realtà avvertire le Br dell’avvicinamento delle forze di polizia al covo. Un sospetto grave che metteva in una luce sinistra la seduta spiritica da cui il nome di Gradoli scaturì. Prodi, che nel ’98 era capo del governo, fu convocato da Pellegrino ma rifiutò di andare. Testimoniarono altri, come Baldassarri, mentre Romano, caparbio, negò il suo aiuto a fare chiarezza. Farà il bis, nel 2003, ignorando tre volte l’invito a presentarsi davanti alla Commissione d’inchiesta Telekom-Serbia. Un misto di superbia e di irresponsabilità.
Risultato: oggi, nessuno crede più che la prigione di Moro sia stata individuata dal piattino, alias bicchierino, alias posacenere di Zappolino. C’è unanimità, in ogni settore politico, sul fatto che Prodi abbia mentito. Il dc Andreotti ha detto: «Mai creduto alla questione dello spiritismo. Probabilmente è qualcuno di Autonomia operaia di Bologna che ha dato questa notizia». Il ds Pellegrino ha aggiunto: «Un chiaro espediente per fornire una notizia coprendone l’origine... che per me è negli ambienti dell’Autonomia universitaria di Bologna». Giovanni Galloni, seguace di Moro, si è indignato: «La seduta era un tentativo di fare una spiata... ma facendo di tutto per coprire la fonte». Galloni è stato anche vicepresidente del Csm, cioè del quartiere generale di quella magistratura che sulla vicenda fa le tre scimmiette da sei lustri.
Nessuno finora ha afferrato Prodi per la collottola ingiungendogli di dire la verità. Dormono le autorità, dorme la stampa e le illazioni infittiscono. L’ultima ipotesi, del gennaio 2005, è che ci sia lo zampino del Kgb sovietico.

A suggerire Gradoli come prigione di Moro sarebbe stato un italiano al servizio di Mosca, tale Giorgio Conforti. Per coprire lui, sarebbe stata montata la seduta medianica, al cui centro c’è Prodi. Lo stesso Prodi che, bugiardo sospetto e reticente certo, vuole guidare l’Italia.
(2. continua)

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