Tutti i modi più semplici per ridurre l’italiano a «cretinese» purissimo

Caro Granzotto, per prenderci un po’ il fiato nella presente aria surriscaldata - come scriveva il corrispondente al suo dirimpettaio Mario Cervi - vorrei parlarle di una lettera della Società Telepass che appena ricevuta. Oggetto: Proposta di modifica unilaterale del contratto Viacard di conto corrente. Il testo così comincia: «Gentile cliente, siamo a comunicarle che dal prossimo...». Siamo a comunicarle! Ma non era più semplice scrivere «le comunichamo»? Questo andazzo ormai è insopportabile, dalla radio alla televisione è tutto un «siamo a...» e a un «andiamo a...», andiamo a leggere, andiamo ad ascoltare, andiamo a scolare la pasta, andiamo a scoprire... Sono dunque a chiederle, caro Granzotto, di andarmi a spiegare il perché di questa epidemia.

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È giunta anche a me quella lettera, gentile lettrice e sospettando che alla trasandatezza idiomatica corrispondesse a una scarsa serietà aziendale, lì per lì ebbi la tentazione di disdire il contratto. Sbollita l’ira, mi son poi tolto la curiosità di sapere quale ruolo ricopra Marco Carli, il firmatario della lettera, quello che «è a comunicare»: risulta il «customer care» dell’azienda (visto che c’era, avrebbe potuto scrivere «compagnia»: in tutti i film, telefilm, sceneggiati americani doppiati i italiano, «company», cioè azienda, è reso per assonanza e dunque alla carlona, «compagnia»). Non è che «customer care» non abbia il corrispettivo in lingua italiana («assistenza ai clienti» andrebbe bene?) o che, come per «air bag», necessiti di una circonlocuzione laboriosa. Però, niente: non c’è peggior sordo di chi, invece di comunicare, a comunicare ci va. A piedi, in bicicletta o in tram, non importa: lui, va. Lei dice bene, gentile lettrice, l’abuso della reggenza sbarazzina dei verbi «essere» e «andare» ha assunto una forma epidemica. Che si risolve in un micidiale martellamento di andiamo di qui, andiamo di là, sono qui, siamo là. E pensare che il convenzionale appello del ciarlatano, l’«andiamo a presentarvi», o dell’imbonitore, «andiamo a cominciare» fece sorridere generazioni d’italiani, anche quando imperava l’analfabetismo. Oggi le due espressioni, sdoganate dal cialtronismo lessicale, hanno fatto irruzione nel linguaggio radiofonico e televisivo, quello che detta la mala legge. E dove spadroneggiano bei tomi i quali, gettando il cuore oltre l’ostacolo, non si accontentano di dire: «Andiamo ad ascoltare la canzone di Tizio», ma: «Ci andiamo ad ascoltare la canzone di Tizio». L’unione fa la forza. Come qualche linguaiolo sostiene, è probabile che quei costrutti siano dei francesismi bastardi (parentesi: anche in questo caso dovrei scrivere, per essere politicamente corretto, francesismi meticci?): quel che è certo rispecchiano la cafonesca convinzione che il linguaggio semplice e immediato sia faccenda per baluba, per gente di poco conto e nessuna cultura. Avrà notato, gentile lettrice, come stia diffondendosi anche il vezzo di non usare l’articolo per indicare un oggetto, ma ricorrervi con un ghirigoro verbale. «Quello che è il bicchiere» invece di «il bicchiere», per intenderci. Così è per il signor Marco Galli. Avrebbe potuto scrivere: «Le comunichiamo...», ma evidentemente gli è sembrato troppo spoglio, inadatto a un «customer care» che si rispetti e dunque ha preferito: «Siamo a comunicarle...». Che gli si risponde? «Grazie, sono a leggervi»? Bah.

Insieme a «quant’altro», gentile lettrice, al «piuttosto che» in funzione disgiuntiva, a «nello specifico» e «problematiche», l’«andiamo a» e il «sono a» risultano in testa alla mia personale classifica delle schifezze linguistiche che grazie al contributo di radio e televisione infiorano l’italiano degradato a cretinese. Quello che, avrebbe detto Mike Bongiorno, va oggi per la maggiore.
Paolo Granzotto

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