L’interprete afghano Adjmal Nashkbandi è nella mani dei tagliagole talebani da oltre un mese, mentre il suo datore di lavoro, Daniele Mastrogiacomo, è stato liberato, in cambio di cinque prigionieri fondamentalisti, il 19 marzo, dopo due sole settimane passate in catene. La vera storia di quello che è accaduto dal 5 marzo (quando l’inviato di Repubblica sparì nella provincia afghana di Helmand) a oggi, è ancora in parte da scrivere. Prima di tutto bisognerebbe capire chi ha venduto Mastrogiacomo ai talebani e chi gli ha promesso un’intervista con il comandante dei tagliagole, Lal Mohammed, abbastanza noto nella zona di Nada Alì, dove è avvenuto il rapimento. In realtà non c’era alcun comandante ad attendere il giornalista italiano, ma i ribelli che sequestrarono lui, il suo interprete e l’autista.
All’inizio i rapitori girano un video soft con Mastrogiacomo che chiede al presidente del Consiglio Romano Prodi di intervenire. Subito dopo questo video, però, cambia qualcosa: il mullah Dadullah, responsabile del sequestro, sembra andare su tutte le furie; o forse qualche mente più fine, giunta dal vicino Pakistan, comincia a consigliargli mosse più truci. A un’agenzia stampa afghana viene recapitato un drammatico messaggio audio di Mastrogiacomo, che fissa un ultimatum per il 16 marzo: se le richieste non saranno accolte, gli ostaggi saranno uccisi. Dadullah fa decapitare Sayed Agha, l’autista di Mastrogiacomo, davanti agli occhi del giornalista italiano. La sorte di Sayed, padre di cinque figli, accusato di essere una spia, era già segnata, ma l’esecuzione scuote tutti e si cede allo scambio di prigionieri.
Prima tre, poi cinque e forse quindici i talebani di cui viene chiesto il rilascio, secondo un comandante dei talebani e alcune gole profonde dei servizi di Kabul. Karzai, il capo di stato afghano, si piega alle pressioni del governo italiano e alla fine libera almeno cinque talebani. I patti stabiliti via telefono con Rahmatullha Hanefi, capo del personale di Emergency nell’ospedale di Laskhargah, il capoluogo della provincia di Helmand, stabiliscono che in cambio dei talebani scarcerati siano rilasciati Mastrogiacomo e il suo interprete. Invece, sul greto del fiume Helmand, dove avviene lo scambio, Adjmal viene fatto salire su un altro convoglio dopo un conciliabolo di 15 minuti fra Rahmatullah ed i capi talebani.
Il 19 marzo Mastrogiacomo torna in libertà, raggiungendo l’ospedale di Emergency, ma Adjmal resta nelle grinfie dei tagliagole. Il giorno dopo Rahmatullah viene arrestato dai servizi afghani che lo accusano, non si sa con quali prove, di collusione con i talebani.
Un altro lato oscuro è la cappa informativa che cala fin dall’inizio sulla vicenda. Agli inviati dei grandi giornali a Kabul veniva in parte impedito di scrivere del caso Mastrogiacomo, caso che nei suoi aspetti più delicati veniva trattato nelle redazioni di Milano o Roma in linea con le veline del governo e le dichiarazioni di Emergency. Il giorno della liberazione di Mastrogiacomo, prima Ezio Mauro, direttore di Repubblica e poi il Tg1, sostengono che Adjmal è libero. Niente deve offuscare il successo dell’operazione e solo il Giornale scrive la cruda verità, Qualche giorno dopo Repubblica rilancia sostenendo che l’interprete è in mano dei servizi afghani.
La ciliegina sulla torta è il velo di silenzio imposto sul canale parallelo di mediazione ingaggiato da Repubblica fin dalle prime ore del sequestro. Uno strano free lance italo-inglese, Claudio Franco e la sua spalla afghana, guarda caso mentore di Adjmal e Sayed Agha, l’autista decapitato, mediano per la liberazione, ma Strada non vuole avere a che fare con loro. La strana coppia rispunta nell’area riservata dell’aeroporto militare di Kabul, quando arriva Mastrogiacomo in viaggio per rientrare in Italia. Qualcuno della Nato ha appena «estratto» i due dal sud dell’Afghanistan.
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