Tutti i tiranni che minacciano il mondo

Tutti presi dalla guerra in Libia, ormai le rivoluzioni mediorentali ci sembrano solo lo sfondo della guerra libica. E invece tutto brucia, e quei fuochi ci segnalano il tempo di capire il Medio Oriente: il mondo arabo è entrato in una epoca nuova e con esso anche il Mediterraneo. Oggi purtroppo balza agli occhi un evento solo apparentemente estraneo all’attualità: l’esplosione a Gerusalemme dell’autobus numero 74, un morto e 31 feriti di cui tre molto gravi. Un ritorno al terrorismo islamista che ha fatto duemila morti nella Seconda Intifada. È il messaggio di Hamas, insieme alla pioggia di missili su tutto il sud di Israele e alla strage di Itamar, a Israele ma anche a quello che chiama il Mubarak palestinese, ovvero Abu Mazen. I siti palestinesi chiedono l’unificazione Hamas-Fatah e la contestazione radicale di Israele. Hamas, parte della Fratellanza Musulmana, bombarda e esplode, vuole trascinare tutto nel caos per accrescere il suo potere.
Poco lontano, in Siria, Bashar rampollo della dinastia alawita fondata da Hafez quarant’anni fa, dopo dieci anni di equilibrismo rischia di cadere giù. Aveva detto che lui non si preoccupava perché è in sintonia col suo popolo. Ieri nella città di Daraa, la più ribelle (ma la rivoluzione è anche a Homs, a Der El Zor, sobborgo di Damasco), Qamishli -città curda-, Baniase e Aleppo) le forze dell’ordine hanno fatto una strage in una moschea. L’hanno fatto con premeditazione, tagliando l’elettricità e facendo irruzione al buio. Hanno ammazzato 15 persone, fra loro anche Ali Ghasab Al Mahmid, un dottore accorso per soccorrere i feriti. Assad, capo del partito baathista, è il vero rappresentante degli interessi iraniani in Medio Oriente, snodo delle armi per Hezbollah e Hamas, ospite, a Damasco, del terrorismo internazionale, campione di persecuzione dei dissidenti, e convinto come Gheddafi, che con le cattive si ottiene tutto. Se i rivoluzionari resistono, lo scontro sarà duro e se Assad perde cambieranno gli equilibri dell’area. Doveroso notare però che in piazza non ci sono solo i giovani democratici ma anche islamisti che minacciano di fare della Siria, ricca di missili russi e di armi chimiche, una bomba contro Israele e l’Occidente. Eppure, si battono per la libertà anche loro, ripresentandoci il dilemma che ci proviene anche dallo Yemen, il Paese per 32 anni dominato da Ali Abdallah Saleh. L’opposizione sostiene che ormai i morti, da venerdì quando le forze di sicurezza hanno sparato sui manifestanti a Sana’a, siano cento. Saleh è determinato e crudele. Si sa però con certezza Al Qaeda è molto forte e che il possibile successore potrebbe essere il generale Ali Mohsen al Ahmar, legato all’Arabia Saudita, un salafita superislamista. Per proseguire il nostro conturbante volo sull’area, vediamo qualche manifestazione persino in Arabia Saudita: le famiglie dei desaparecidos nelle carceri di Ryiad si presentano disperati in piazza. Le forze saudite rispondono con la forza. E compaiono anche nelle piazze del Bahrain, dove reprimono la popolazione sciita in rivolta contro il regime sunnita suo amico. Anche là, comprendere le rivendicazioni dei rivoltosi non vuol dire ignorare gli attacchi iraniani ai sauditi accusati dal regime più repressivo del mondo, appunto, di reprimere.
Non è finita: a Beirut, e nessuno se n’è accorto,il 13 marzo si è radunata in piazza una folla valutata a un milione di persone per festeggiare il sesto anniversario dell’uscita della Siria dal Libano e per chiedere agli Hezbollah di consegnare le armi. Ecco finalmente dunque una piazza democratica: può avvenire però solo dove la tradizione democratica esiste già. Così è per la manifestazione tenutasi a Istanbul per la libertà di stampa. 68 giornalisti sono stati arrestati dal governo di Erdogan, e qualche mese prima erano stati rastrellati 300 fra militari, avvocati, professionisti accusati di cospirazione. In piazza c’erano, il 13 marzo, almeno 1000 dimostranti.
Anche la rivoluzione egiziana non è ancora finita, e il referendum sulla Costituzione ha dimostrato che i Fratelli musulmani probabilmente vinceranno le prossime elezioni. Infine, anche il re Abdullah di Giordania non ride: la sua scelta di un nuovo primo ministro, Al Bakhit, ex ambasciatore in Israele, non è stata apprezzata dai Fratelli Mussulmani e dai Palestinesi, questi ultimi maggioranza in Giordania, e non la accettano neppure molte tribù del regno. Alta marea dunque, nel Mediterraneo.

Prepariamoci alla lunga traversata, la terra non è in vista, non solo Gheddafi è pericoloso, non ingaggiamoci in classifiche fra la pericolosità di questo e quel dittatore, o di Al Qaeda comparata ai Fratelli Musulmani. Non ci sono buoni in vista, se non pochi dissidenti laici, intellettuali, femministe e giovani liberali, ancora fragili come vetro.

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