Tutti i trucchi del pane buono

Lo so bene che i pasticcieri considerano i panettieri dei pasticcieri mancati, ma il rilievo ha solo un valore di battuta perché fare un buon pane è un lavoro serio, che non si riduce a impastare, fischiettando, acqua, farina, lievito e sale, ma che inizia ben prima. Oggi si tratta di decidere se essere artigiani, la via della fatica e della ricerca, o semplici rivenditori di un qualcosa prodotto da terzi o magari fatto pure in casa ma con materie prima standardizzate, studiate espressamente per ottenere il massimo della resa quantitativa e solo quella.
Come per tutte le cose di questo mondo, anche con sfilatini, michette e pagnotte c’è la strada madre e ci sono le scorciatoie birichine, velocizzazioni che durano però poco perché un pane fatto con lievito naturale e farine di qualità è ottimo anche tre giorni dopo, mentre quelli standard li comperi la mattina e la sera sono buoni per la zuppa del cane. Di certo a Milano si gode un sacco nei punti vendita di Princi, www.princi.it, slogan «in nome del pane» così come è una sicurezza Colla in via Luca della Robbia. Poi è una miniera di informazioni Giuliano Pediconi, telefono 333. 3421793, che panifica a Montecarotto (Ancona), con Roma dove brillano i Panella all’Esquilino, 06.4872344, Roscioli a Campo de’ Fiori, 06.6864045, e Panis a Montesacro, 06.87186134. E ancora i siti da non perdere come www.pianetapane.it e www.panefattoincasa.net.
Sì: il sito del Pane-Fatto-In-Casa perché farsi il pane da sé è ormai più di una moda salutista, esattamente come sono tanti i ristoranti che portano in tavola il pane della casa, magari più pani, focacce e grissini, arricchiti da questo o quell’aroma: pomodoro, cipolla, noci, rosmarino, sesamo, papavero (i semini), farina di mais, fecola, sale grosso, uvetta, nero di seppia, spinaci... Questo non sempre con risultati felici perché il pane richiede in fondo pochi ingredienti e pochi passaggi ma tutti diluiti nel tempo e non sempre in una cucina si ha pazienza, oltre che competenza specifica. Spesso sarebbe meglio che un ristoratore si coccolasse un fornaio, come ad esempio Eugenio Pol del laboratorio Vulaiga a Fobello (Vercelli), 0163.55901, che il 29 gennaio a Identità Golose, www.identitagolose.it, terrà una lezione su come panificare nella ristorazione, lui cuoco milanese folgorato quindici anni fa dalla «Micca» in una Valsesia dove si trasferì e da dove ora si muove per portare le sue pagnottone a grandi locali stellati.
«Vulaiga? Così qui tra i monti viene chiamata in dialetto la prima neve, quei fiocchi che volano leggeri e sembrano non cadere mai, lo stesso effetto che in laboratorio noto nella farina sospesa nell’aria o nella cenere», racconta Eugenio, tanta altezza e tanta saggezza, sempre pronto ad ascoltare chi gli telefona per sapere cosa ha sbagliato nel prepararsi la sua michetta.
LIEVITO. «Si deve partire dal lievito madre: acqua e farina. Acqua buona, non quella dei rubinetti di città con il cloro che non farebbe partire la fermentazione. Chi non vive in montagna ricorra alla minerale, così come la farina deve essere biologica macinata a pietra. Parti uguali, tre cucchiai di farina e tre di acqua a circa 30 gradi, certo non acqua bollente. A impasto pronto, lo si copre o con un telo umido o con della pellicola e lo si lascia lì, in un contenitore, per due o tre giorni perché la fermentazione parta. La temperatura? 24/26 gradi, è per questo che di solito uno procede con una nuova madre in estate e non in inverno».
MANDARINO. La dimensione di un pastello pronto, il doppio rispetto all’inizio, da nutrire e rinfrescare ogni due o tre giorni. «Una madre ha una vita infinita, anche se conosce la stanchezza», ricorda Pol. «Vive o nella stanza fresca della casa o in frigo, nel reparto meno freddo, tra i 10 e 15°. Una buona norma è quella di tirare fuori il lievito la sera e di rinfrescarlo la mattina seguente».
AL LAVORO. «A casa bisogna pensare a un pane di un chilo e 200 grammi a crudo ovvero 200 di lievito 650 di farina e 350 di acqua, più il sale, 16 gr, sale che è giusto mettere anche se si desidera un pane sciapo alla toscana, giusto 4 grammi per tenere a bada i batteri. Non lo si avverte al palato. Si inizia sciogliendo il sale nell’acqua, poi unendo il lievito e infine la farina. Tutto a mano».
RIPOSARE. È la prima puntata della lievitazione, minimo due o tre ore: «La massa non raddoppia, si alza di un centimetro. Bisogna prestare attenzione a che la madre non strappi quando si passa alla seconda fase, quella che termina nella forma da mettere al forno. È un gioco di equilibrio tra prima e seconda puntata, di almeno 3/4 ore, se si allunga la prima si accorcia la seconda e viceversa. L’esperienza aiuta».
IN FORNO. Ci siamo, finalmente: «Il forno elettrico di casa va benissimo. Certo il forno a legna, poi però tutti quelli che dicono di usarlo - si chiede Pol -, lo usano per davvero? Ho visto forni a legna riscaldati con il kerosene e pani cotti nell’elettrico, poi sporcati con la cenere... In ogni modo: forno preriscaldato a 220°, cottura per 40/45 minuti e cocotte con acqua per l’umidità. Il pane andrebbe mangiato il giorno dopo.

Va fatto riposare perché riequilibri tutti i suoi umori, dalla crosta fino al pulcino, il cuore che in cottura non supera i 70°. È come col roast beef: se lo tagli subito, il sangue dilaga e non rimedi più nulla. L’indomani lo riscaldi e diventa pura poesia».

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