Tutti patrioti, ma prima dov’erano?

Scusatemi, ma non ce la faccio. Ho letto con attenzione, e con un vago senso di colpa, gli editoriali che celebravano il «nuovo patriottismo» (Sole 24 Ore), il «patriottismo mite» (Corriere della Sera), la «festa del popolo» (Repubblica), «il grande giorno del Tricolore» (Messaggero), ma non sono riuscito a sentirmi patriottico nemmeno un po’. Ci ho provato, lo giuro. Ma non ce l’ho fatta. È più forte di me. Ho letto anche l’articolo, come al solito scritto da maestro, con cuore e sincero sentimento dal nostro Cristiano Gatti. E qui il mio senso di colpa si è ingigantito. Lui dice che avrebbe voluto lasciare la bandiera italiana alla finestra ancora un po’. Pensate che io, invece, quando giovedì mattina ho visto che i miei figli l’avevano messa fuori, a mia insaputa, ho avuto l’istinto di toglierla. Ancor prima che la festa cominciasse, capite?
Mi sono fermato appena in tempo, prima di compiere il gesto crudele e inconsulto. Ma mi resta il vago senso di nausea per l’eccesso di patriottismo che ci stanno servendo. E mi domando: ma tutti questi appassionati di tricolore, fino all’altro ieri, dove diavolo si nascondevano? Lo dico, sia chiaro, senza alcun intento polemico, perché mi rendo conto che in questi giorni dobbiamo essere uniti e felici. Lo dico solo per cercare di smorzare un po’ il mio senso di colpa: in fondo, se faccio così fatica a celebrare il «nuovo patriottismo» è perché nessuno me lo ha inculcato. Anche il presidente Napolitano, per dire, adesso è tutto per il tricolore. Ma fino a qualche anno fa, se non sbaglio, del bianco e del verde faceva a meno volentieri.
Ricordate? Se ripenso alle feste per celebrare l’Italia del passato, mi viene in mente il 25 aprile. Si parlava di Resistenza, di antifascismo, di democrazia. Mai di patria. Quando andavo a scuola, c’erano i partigiani che venivano a parlare in classe. (Anzi, i comandanti partigiani. Tanto che io crescevo e mi chiedevo: ma com’è che ’sti partigiani erano tutti comandanti? Un soldato semplice non ce l’avevano?). Ebbene: non si vedevano bandiere italiane, al massimo bandiere rosse. Mai nessuno di loro che cantasse l’inno, al massimo Bella ciao. Adesso che ci rifletto: alle elementari ricordo di aver imparato canzoncine di tutti i generi: per Natale, per Pasqua, per la festa della mamma, per la festa del papà. Mai una volta che si cantasse Mameli, nemmeno per sbaglio.
La prima volta che ho sentito forte l’esigenza di una bandiera italiana è stato l’11 luglio 1982, il giorno della vittoria del Mundial spagnolo, quello di Tardelli e Paolo Rossi. Ci sentimmo tutti italiani, allora. Ma eravamo così sprovvisti di tricolori che ricordo che mia madre me ne dovette improvvisare uno annodando indumenti presi a caso dall’armadio, sull’onda dell’euforia da campioni del mondo: il verde era una maglietta, il bianco il fazzoletto, il rosso un costume da bagno. Ci fece ridere assai. Oggi, forse, qualcuno lo riterrebbe un sacrilegio.
Allora non c’era sacrilegio, e non c’era retorica. La prima volta che sono entrato a Torino i miei genitori mi fecero vedere la monorotaia di Italia ’61. Per molti anni pensai che Italia ’61 fosse stata inventata per costruire la monorotaia, che mi sembrava una specie di giostra per adulti, appena un po’ più noiosa dell’ottovolante. E non riuscivo a capire che bisogno ci fosse d’inventarsi la storia della celebrazione per inaugurare una nuova attrazione.
Nessuno mi ha mai spiegato bene le ragioni di Italia ’61 e delle sue feste. In fondo è stato a lungo vietato dirsi patriottici. Era una specie di insulto. Il Paese è stato sempre immerso in due culture, quella cattolica e quella comunista, entrambe fiere avversarie della Nazione. Del resto, si sa: i comunisti inseguivano l’Internazionale operaia, i cattolici l’Internazionale del paradiso. A scuola chi avesse portato una coccarda biancorossoverde, come quelle che ieri avevano tutti in tv, finiva subito bollato come fascista. Ma anche fra i miei amici della parrocchia, ragazzi dell’oratorio, non c’era grande passione per l’Italia: si guardava alle missioni, all’Africa, al Centramerica, mai al tricolore. La Chiesa è cattolica, appunto, cioè universale, si diceva: mica può perdersi nel cortile di casa. Adesso mi fa piacere leggere del cardinal Bagnasco in versione risorgimentale, mi bevo con gioia gli editoriali di Avvenire sul contributo dei cattolici all’identità nazionale. E un po’ dispiaciuto mi chiedo: accidenti, non potevate spiegarmelo prima?
Magari, ecco, se me l’aveste spiegato prima oggi riuscirei a sentirmi un po’ più patriottico anch’io. Riuscirei soprattutto a commuovermi leggendo certi editoriali. Invece nulla. Continuo a cercare nella memoria. E ricordo che l’unica volta che sentivo un po’ di sana retorica sull’Italia era quando mio padre mi portava al torneo di bocce degli alpini. A un certo punto i veci col cappello tiravano fuori la pinta di Barbera e cantavano l’inno. Ma lo facevano di nascosto, quasi vergognandosi. Così intere generazioni di italiani sono cresciuti pensando che le vere feste dell’unità fossero quelle con Napolitano e le bandiere rosse.

Adesso scopriamo che la festa dell’Unità si fa con Napolitano e le bandiere tricolori. Benissimo, per carità: questa abbuffata di patriottismo è assai onorevole. Ma mi domando: dopo tanto digiuno non farà male? E soprattutto: ci lascerà qualcosa di concreto, oltre al senso di nausea?

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