Gian Marco Chiocci
da Roma
Dopo essersi «confessato» alla Stampa lungo i tornanti di Cortina, Maurizio Scelli prende la parola al convegno sullintelligence organizzato nella località delle Dolomiti dove il direttore del Sismi, Nicolò Pollari, ha volutamente dato forfeit per non incrociarlo. È il pomeriggio del 23 agosto. Rispondendo alle domande del giornalista Massimo Martinelli, lex commissario della Cri parte da lontano, loda il suo operato insieme a quello della sua ex organizzazione umanitaria («che non nasce certo alle Maldive per soccorrere chi si fa il bagno entro tre ore dal pasto»). E in un crescendo «crocerossiniano» spara ai bersagli grossi della politica e dei Servizi segreti. È una sorta di bis per villeggianti rispetto allintervista concessa pochi istanti prima, e che tanto scalpore farà di lì a poco per i vendicativi riferimenti a Palazzo Chigi, Sismi, alleati americani. È un continuo dire bene di sé, delle sue intuizioni, dei suoi contatti, dellimpegno per aiutare feriti e affamati. Alla ricerca di frasi a effetto, Scelli non fa però alcun accenno né ai terroristi nascosti nei camion e curati allinsaputa dellesercito statunitense, né a Gianni Letta che avrebbe saputo del suo operato segreto finalizzato a contrabbandare la liberazione delle due Simone.
Sin dallesordio se la prende con le «incaute esternazioni» del ministro Calderoli che avrebbe irritato gli amici ulema e messo in serio rischio la liberazione della Pari, della Torretta, lincolumità sua e dei suoi sottoposti. «Io ho vissuto due mesi e mezzo a Bagdad, e li ho vissuti border-line. Ho rifiutato sia la scorta e persino di incontrare lambasciatore italiano perché volevo che questa gente percepisse che quegli uomini straordinari in divisa blu fossero lì per aiutare la popolazione anche in nome e per conto del popolo italiano, non del governo italiano». Come se nessuno fosse a conoscenza della sua investitura ufficiale avvenuta a Palazzo Chigi, degli attriti col Sismi, dei battibecchi con Gino Strada. Anche al Jazeera e le pietre di Bagdad sapevano che cera lui, per conto del governo italiano, dietro la trattativa delle due Simone e in quella fallita per il rilascio di Stefio, Agliana e Cupertino.
Eppure, sibila, «qualche volta, io mi sono quasi vergognato di essere italiano». Quando? E perché? «Nel sentire certe dichiarazioni di certi nostri politici che con grande senso di irresponsabilità e incoscienza dicevano certe cose». Un nome? Roberto Calderoli. Con quella frase su «ogni giorno di sequestro in più degli ostaggi italiani mille immigrati verranno rispediti a casa», il ministro leghista avrebbe indispettito i suoi referenti «che facevano da tramite coi sequestratori». O come Romano Prodi, «che generava il dubbio nei cittadini iracheni che lItalia fosse lì per fare la guerra e non per esportare la pace». Ecco, tuona lex commissario, «in quel momento, la dichiarazione del ministro Calderoli, seppure detta in buona fede, si è rivelata unazione che rischiava di compromettere tutto». Questo per ribadire che «certe esternazioni non fanno che mettere a rischio tutti coloro che in nome e per conto del popolo italiano operavano in Irak». Maledetti politici, dilettanti allo sbaraglio. Dilettanti - incalza Scelli - come coloro che hanno osato solo pensare a una divergenza dopinioni (nota invece a tutti) con lintelligence italiana. «Abbiamo lavorato in perfetta sincronia», butta lì senza convinzione.
A proposito di servizi segreti. Se la Croce rossa anziché prestare cure, distribuire medicinali, organizzare viaggi della speranza per mutilati e invalidi di guerra sè ritrovata a fare il lavoro sporco delle barbe finte, a detta di Scelli è stato per un aneddoto da libro cuore: «Un giorno arriva un uomo e mi dice: Avete salvato mio figlio, ve lo consegno per darlo in cambio ai terroristi, pur di riavere i vostri connazionali rapiti. Da quel momento è partita la consapevolezza che potevamo arrivare dove forse in tanti non sarebbero mai arrivati». Mah. Qualcuno storce il naso. Qualcun altro batte le mani. Il riferimento tacito a chi non ce lavrebbe mai fatta, è al Sismi, col quale Scelli - confermano gli 007 - è entrato in rotta di collisione per Baldoni, per le due Simone, per i tre bodyguard orfani di Quattrocchi.
Senza motivo Scelli si sente comunque accerchiato. Rivendica rispetto e correttezza. È un rambo daltruismo sul filo del rasoio, dice di sé. «Credo di essere stato uno che è passato in una frazione di secondo da sognare di essere un campione del calcio con la maglietta numero 11 a un letto numero 32 in una corsia di ospedale senza quasi più speranza di andare avanti. Quindi sono un uomo molto concreto, abituato a giocarsi il tutto per tutto. Laspetto border-line per me ha significato buttare il cuore oltre lostacolo (...)». È la roboante premessa per parlare «dellamico Calipari» (applausi), «delleroe Nicola» (altri applausi) e dei cattivi americani (nessun applauso).
Per prima cosa ribadisce daver vissuto «da protagonista», e non da comparsa, la vicenda delle due Simone (applausi). Dopodiché spiega che i meriti della liberazione sono effettivamente suoi, e il fatto che compaia nel video mentre le volontarie rivedono la luce non vuol dire che gli agenti del Sismi, per ovvie ragioni, non potevano apparire in tv. «È fare grande offesa a Nicola far passare il messaggio che a un certo punto sia stato messo questo pupazzo che si chiama Maurizio Scelli davanti alle telecamere di al Jazeera per ammantare quello che era stato fatto da altri. Le cose stanno in maniera completamente diversa! Io ho vissuto tutto liter che ha vissuto Calipari». Sì, proprio lui. Lamico-eroe Robin Hood che al telefono con i superiori di Roma ubbidisce per finta e disubbidisce nei fatti consentendo a Scelli di continuare loperazione che al Sismi volevano interrompere temendo una trappola dei sequestratori: «Quel tornate subito a casa, interrompete loperazione, significava, e Nicola lha capito al volo come lo abbiamo capito tutti, la morte delle due ragazze. E allora di fronte ai no dellautorità costituita, Nicola mi ha guardato in faccia, senza dirmi niente, ma con quegli occhi mi ha detto vai, e non cè stato uno scambio di parole fra noi due». Calipari non può confermare né smentire, purtroppo. Scelli, invece, conferma senza timore di smentita la circostanza (negata dal governo) della segretezza delloperazione per unaltra liberazione: quella di Giuliana Sgrena. Perché la verità, la sua verità, è che né lui né lamico Nicola si fidavano degli americani. «Calipari non si fidava di nessuno se non di se stesso e dei suoi uomini. Aveva deciso di fare unoperazione in gran segreto perché solo così poteva andare a buon fine.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.