Cultura e Spettacoli

U2 La voce del rock esalta Bruxelles

Paolo Giordano

nostro inviato a Bruxelles

Ma che bello quel raggio di sole che filtra dagli spalti dell'Heysel mentre le luci si accendono e questi quattro rockettari entrano alla spicciolata tanto che la musica spegne la ola sugli spalti. Ecco Bono. Ecco The Edge, Larry, Adam, ecco gli U2 che qui iniziano il loro giro di concerti europei (a Milano il 20 e 21 luglio, Roma il 23) facendo rimbombare la voce apocalittica che urla Everyone, tutti, giusto un istante prima che inizi Vertigo e Bono scandisca la sua «un dos, tres, catorce» rimanendosene fermo in mezzo al palco. Tempo di un accordo e sessantamila belgi la smettono di bere birra per fermarsi con gli occhi fissi su questo palco anche quando Until the end of the world batte in quattro quarti la sua nuova voce, aggressiva e poetica, quasi bohémienne nonostante il testo visionario che il pubblico manda a memoria. D'altronde il palco è questo, enorme e paternale, con due passerelle che corrono dentro la platea come tenaglie, due chele a strisce rossonere come la copertina di How to dismantle an atomic bomb. Bono ci corre a perdifiato, come faceva nel cortile di casa, mentre la sua atomic bomb, la sua bomba atomica («Perché mio padre era proprio così») lo guardava alzando gli occhi al cielo senza sapere che cosa l'aspettava, un figlio rockstar che sarebbe andato a pranzo con il Presidente degli States. Quando andò a vedere gli U2 per la prima volta in America, Bobby Hewson si sedette in platea, tranquillo e nascosto, e ci rimase male quando Bono, a metà concerto, lo fece inquadrare a bruciapelo dai riflettori davanti a centomila spettatori. «Sì mio figlio ha fatto strada» disse lui all'uscita, con lo stesso sguardo di Sean Connery quando era Jim Malone negli Intoccabili: coraggioso e dolce. Era appena andato in pensione proprio mentre gli U2 erano la next big thing cantando Electric Co. nel 1980 che stasera in questa bolgia arriva appena prima di Elevation.
Diggin' in a hole canta Bono, tutto vestito di nero, giubbotto e pantaloni e occhiali, così rock da aver pure la barba lunga e non dire neanche una parola finché la tastiera di The Edge non inizia a snocciolare gli accordi di New Years's day e ci sono sessantamila corpi in platea che ballano senza fiatare, ascoltando, muovendosi all'inseguimento di questo suono secco, sincopato, malinconico. Che sia l'alba del nuovo anno gli U2 se lo aspettano da quando vennero fuori da Dublino e al Temple Bar tutti sapevano che sarebbero finiti così: al centro del mondo senza starci sopra. Un'alba nuova oppure un Beautiful day, che è il brano apripista di All that you can't leave behind e che qui si scioglie in un pastone sfigurato, così sfigurato che lo tiene in piedi solo Bono correndo sulle tenaglie rossonere perché questo è il momento giusto di andare incontro alla gente fin dove arriva l'ultimo lembo di sole. «Che bel giorno», dice poi mentre un cono di luce porpora lo blocca a venti metri dal palco e le note lentamente si dileguano, cambiano, si sciolgono in City of blinding lights. «Che bel giorno», dice poi mentre le note lentamente si dileguano, cambiano, si sciolgono in City of blinding lights, che è uno dei momenti più alti con la conclusiva One, quando lui parla di Africa, dei «seimila morti per odio tutti i giorni» e si rivolge a Bush, Chirac e Blair «che tra poco si incontreranno al G8».
Il Chicago Tribune ha scritto che gli U2 si sono trasformati nei nuovi Rolling Stones, suonano un bel po' di classici perché i pezzi nuovi sono così così e bisogna pur sempre mandare avanti una baracca da milioni di dollari. I biglietti questa sera valgono settanta euro, i bagarini fuori li cercano col lanternino e su ebay.com vanno a ruba perché, signori, questo è comunque lo spettacolo più atteso del rock.

Quando lentamente il basso accompagna Love and peace or else o si stringe alla batteria per Sunday bloody Sunday (e Bono si infila la bandana con i simboli cristiani, musulmani ed ebrei, invitando alla convivenza delle religioni), gli U2 dimostrano che l'unico modo per conservare vitalità dopo un quarto di secolo in cima al mondo è rimanersene sempre fuori, «le strade non hanno più nome» e tutt'al più si può credere di dargliene uno migliore.

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