Solitario, mentre Margherita Sarfatti impone a Milano i pittori del suo Novecento, un pittore nato nel paese di Virgilio, vicino a Mantova, Ugo Celada, percorre una strada parallela che ha il rigore della Nuova oggettività e il classicismo della tradizione italiana. Il suo riferimento morale ed estetico è Giorgio de Chirico, dal quale mutua l'immagine metaforica dei manichini e il culto per la tradizione pittorica che non conosce alternative alla figurazione, in un singolarissimo percorso che non prevede evoluzione e movimento. Dal primo riconoscimento di Émile Bernard nel 1926, alla XV Biennale di Venezia, davanti al nudo femminile Distrazione, «dipinto con una sorta di tempera liscia e smaltata alla Bronzino», con l'intuizione di sentirne il classicismo più conforme ai Fiorentini che a Ingres, Celada congela la forma in una immobilità impietrita e senza mutamento che non ammette variazioni stilistiche e influenze dei tempi e delle mode. E stabili restano, per settant'anni, anche i generi della sua pittura: nudi, ritratti, nature morte. La sua ossessione formale sfida la cronologia e mette a dura prova critici e classificatori che lo hanno lasciato al palo, fino alle recenti incursioni di Flavio Caroli e, ora, nella scia del gusto certo e non influenzabile, che stabilisce mode e non le segue, di Franco Maria Ricci, di Cristian Valenti, con la mostra al Labirinto della Masone di Fontanellato.
Coetaneo di Cagnaccio di San Pietro e di Antonio Donghi, e a loro formalmente affine, si presenta ora con un singolare ritardo storico, coerente con il suo anacronismo, e con una integrità che è la prova della sua incrollabile certezza. Ricordo l'impressione che mi fece quando volli incontrarlo, a Milano nel 1989. Aveva 94 anni (sarebbe morto a cento). Mi ricevette nel suo studio, in via Melzi d'Eril. Era di non grande statura, indossava un gilet di un abito anni '50, e mantenne costante un sorriso ironico non nei miei confronti, ma nei confronti del mondo, come se avesse incontrato un complice nel riconoscerne le finzioni. Ricordo che eravamo alla fine della giornata, mentre mi mostrava i suoi (rari) quadri alla luce di una lampada fioca, in una stanza foderata di legno, come in un altro tempo. Sorrideva, ed era indifferente al giudizio. Mostrava sé stesso. C'era poco da giudicare. Si compiacque con me, che ne avevo visto solo metà, di aver visto tutto il secolo. Era sublimemente atarattico, gli anni Venti, e gli anni Trenta, e gli anni Quaranta, e gli anni Cinquanta erano lì; e anche i Sessanta, i Settanta e gli Ottanta; e lui sempre lì, immobile. E forse irremovibile, e comunque tetragono: una vecchia tartaruga della pittura di inizio secolo, sopravvissuta, e così lentamente avanzante da non essere percepita spostarsi.
Chissà se Franco Maria Ricci, che ne era collezionista, ha mai conosciuto Celada. Aveva il tempo addosso, Celada, nel 1989 come al tempo del suo autoritratto con il manichino. Quando? Nel '35? Nel '45? Valenti annaspa. Data e dubita. Sempre «circa». La moglie Resi è certamente del '30. Lo sguardo ombroso e la pettinatura. E la mia bambina in rosso che legge un libro d'arte, con Raffaello e Tiziano? Del '50? O del '60? Una bambina così è sempre una bambina. Non c'è storia. O c'è storia? E le nature morte? E i vasi? Un vaso è un vaso è un vaso, come una rosa è una rosa è una rosa. Di quando? Di oggi, sempre di oggi. Il tempo è fermo. Noi ce ne andiamo.
Dopo la rottura con il gruppo di Novecento della Sarfatti, con una lettera a Roberto Farinacci, firmata con altri artisti mantovani (Archimede Bresciani da Gazoldo, Maurizio Notari Pesenti, Mario Moretti Foggia, Mario Lomini, Arrigo Andreani), a Celada non resterà che la solitudine dello studio. «In Italia - scrissero fra l'altro - s'è soppressa la grande Massoneria, ma sventuratamente non si è ancora potuto impedire il formarsi di piccoli aggregati massonici sui generis di cui questo del Novecento è un deplorevole esempio. Deplorevole perché l'Arte italiana non aveva mai subito un'umiliazione così grande e un sovvertimento così audace di valori e di tradizioni. Non ripeteremo qui quello che più autorevolmente è stato detto e scritto da altri sui fasti dei Novecento, sempre considerato come una formazione politico-commerciale sopraffattrice e non considerato come gruppo di tendenza d'arte (...). Ma qualcosa ci resta da dire sulla nuova trovata degli inviti per la XVIª Biennale Veneziana, la più grande assise d'Arte italiana e internazionale, verso la quale aspirano legittimamente tutti gli artisti (...). Questa faccenda degli inviti affidata alle solite persone compromesse col Novecento significa che il Novecento sarà certamente invitato, e non solo per un'opera o due, ma per sale intere, riproduzione della Quadriennale romana; riproduzione della Mostra dei Sindacati; riproduzione delle mostre organizzate all'estero all'insaputa di tutti (...). Onorevole Farinacci: il Duce, conosce quel che avviene nel nostro campo? Tutti noi ce lo domandiamo e non soltanto noi, piccolo drappello di un esercito di artisti isolati, mortificati ed offesi! Noi chiediamo che Lei, uomo forte e leale, impieghi la Sua virtù a far cessare una condizione di cose che non giova all'Arte».
Da questo momento Celada inizia a sparire. Lo spartiacque della guerra non basterà a metterlo in crisi, stabilendo un confine fra l'arte antica sopravvivente in artisti come lui e l'arte moderna. Emblematicamente un mondo finisce e un mondo comincia quando, nel 1951, a Palazzo Reale di Milano aprì la mostra di Caravaggio curata da Roberto Longhi, da cui inizia la moderna fortuna del pittore. Longhi inventò «I pittori della Realtà».
Sempre silente Celada, gli assai affini «pittori moderni della realtà», con un bellicoso manifesto programmatico affrontarono la questione stabilendo un fronte di «resistenza». La stessa di Celada che era fermo, lontano, isolato. Mai sconfitto. Furono quattro, Gregorio Sciltian, Pietro Annigoni, Xavier e Antonio Bueno, a firmarlo; e altri tre, Giovanni Acci, Alfredo Serri e Carlo Guarienti, aderirono con convinzione, partecipando alle cinque mostre in cui si consumò la loro esperienza comunitaria, tra 1947 e 1949. «Non ci interessa - scrissero - né ci commuove una pittura cosiddetta astratta e pura che, figlia di una società in sfacelo, si è vuotata di qualsiasi contenuto umano ripiegandosi su se stessa, nella vana speranza di trovare in sé la sua sostanza. Noi rinneghiamo tutta la pittura contemporanea dal postimpressionismo a oggi, considerandola l'espressione dell'epoca del falso progresso e il riflesso della pericolosa minaccia che incombe sull'umanità (...). Noi ricreiamo l'arte dell'illusione della realtà, eterno e antichissimo seme delle arti figurative. Noi non ci prestiamo ad alcun ritorno, noi continuiamo semplicemente a svolgere la missione della vera pittura. Di fronte a un nuovo accademismo o passatismo, fatti di avanzi di formule cubiste e di sensualità impressionista standardizzata, noi abbiamo esposto una pittura che, incurante di mode e di teorie estetiche, cerca di esprimere i nostri sentimenti attraverso quel linguaggio che ognuno di noi, a seconda del proprio temperamento, ha ritrovato guardando direttamente la realtà».
Grande entusiasmo. Poi il buio. Lo scontro è duro, e fallimentare. Il redde rationem è nel 1951, quando Fontana presenta il «Manifesto tecnico dello spazialismo» e produce Struttura al neon per la IX Triennale di Milano del 1951, un filamento continuo che si intreccia più volte, appeso a un soffitto colorato di blu (progettato con gli architetti Baldessari e Grisotti), e sembra cristallizzare il movimento luminoso di una torcia elettrica o la grafia di uno schizzo su carta, simile ai tracciati di Hans Hartung. Da quel momento sarà vano ogni tentativo di opposizione da parte dei pittori realisti. Non si contano i passaggi sull'altro fronte, con straordinari risultati: Capogrossi, Afro, Leoncillo, Fausto Pirandello. Resistono De Chirico, Sciltian e Annigoni, disprezzati fino all'irrisione, spariscono Acci e Serri, cambiano pelle, in diverso modo, i due Bueno: Antonio diventando astratto tra il '50 e il '53, informale, pop, nel seguito, intercettando gli stimoli dell'avanguardia; e Xavier, ideologicamente sensibile al mondo della povertà e dell'infanzia.
La dannazione del realismo è prevalente ma discontinua, e tale
resta nelle rivalutazioni, dalle quali sembrano esclusi, come per un peccato originale, proprio i pittori moderni della realtà. È tutto chiaro. Caro Valenti, non c'è nessun «enigma antico e moderno». Altrove, Celada c'è .
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