Le ultime eroine: quei cento soldati perduti di nome Jane

Giovani, belle, coraggiose hanno lasciato figli piccoli e carriere migliori. Soltanto per difendere la libertà. Non sparano quasi mai, ma la guerra ne ha già uccise un centinaio. E le donne che si arruolano sono sempre di più. Tutte le storie

Le ultime eroine: quei cento soldati perduti di nome Jane

Padre Doug Duerksen attraversa ogni mattina senza fretta strade appena illuminate dall’alba, prati che sanno di erba nuova, casettine dai tetti bassi, per bussare alla porta dell’indirizzo che tiene tra le dita. È il cappellano dell’esercito americano, tocca a lui spiegare ai volti di pietra che gli aprono la porta che il loro ragazzo dall’Irak, dalla guerra, non tornerà più. In qualche modo ha sempre trovato le parole, Dio gli ha dato forza e sguardi per non abbassare gli occhi davanti a tutto quel dolore. Ma stavolta è troppo. Stavolta non ha parole, né sguardi, né Dio per parlare. Eppure quella via Crucis l’ha percorsa tante volte. Per Linda Tarango-Griess, per esempio, sergente del 267° Nebraska, 33 anni, l’aria sempre gentile e un sorriso per tutti. Aveva appena chiamato casa papà Augustin e mamma Juanita che si preoccupavano tanto per lei: «Tranquilli, tra due settimane torno a casa, non vedo l’ora...». Diciotto ore più tardi padre Doug entrava nel cortile di casa Tarango- Griess, a Lincoln, per dire che Linda se l’era portata via una bomba nascosta sulla strada che va a Samarra. C’era Douglas, il marito, sulla porta, è un sergente dell’esercito anche lui, se vuoi, gli hanno spiegato i superiori, puoi essere esentato, non andare più in Irak. Ma lui ha preferito tornare a combattere. Senza di lei tanto vale morire.

O per Jessica Cawvey, sergente del 1154 Illinois, 21 anni, una figlia di sei, Sierra, e i sogni di tante. «Perché mamma non ti trovi un lavoro più sicuro?» le aveva chiesto la piccola. «Perché mi piace questo». Si era arruolata per pagarsi l’università e avere di che crescere la bimba, ma l’11 settembre aveva cambiato il suo destino. Si sentiva tranquilla perché era già sopravvissuta a un attentato, per questo aveva accettato di prendere il posto all’ultimo momento di un commilitone rimasto ferito: «Sbrigo quest’ultimo lavoro, torno tra un minuto». Una bomba ha fatto saltare il suo convoglio, i suoi due compagni si sono salvati, lei, che guidava, no. La vita finita per un minuto. Nella contea di Kankakee, per ricordarla hanno piantato un albero, intorno tutte le Chicas, le compagne della squadra di pallavolo, le sue medaglie e i suoi nastrini, tutto ciò che era, è in una scatola di legno. Che una bambina di sei anni tiene stretta tra le mani, appoggiata al cuore.

Sul fronte di guerra ci sono anche loro, non sparano quasi mai ma muoiono come tutti gli altri. Centodiciassette croci fino adesso, l’ultima, qualche settimana fa, si chiamava Jessica Sarandrea, ventidue anni. In Vietnam erano state otto, tutte infermiere. E centinaia tornano a casa offese nel corpo e nell'anima che è anche peggio. Soldatesse. Partite per il fronte, dove nessuno si ferma a provare pietà, per obbedire a un amore pericoloso o solo per bisogno, per meritarsi una vita migliore, l'ultima scelta di chi non ha più scelta. Lottano contro la paura di aver sbagliato vita, piangono piano sotto l'elmetto, per non farsi sentire. Ma combattono come leonesse. Come Jennifer Harris, 27 anni, capitano e istruttrice di volo. Nella sua Swampscott, Massachusetts, le piaceva prendersi cura degli anziani, guarire cuori solitari, ad Al Anbar, Irak, volando con il suo CH-46E era riuscita a portare in salvo decine di commilitoni. Ma non se stessa. Un razzo ha disintegrato il suo elicottero, così come una tempesta nel sud dell’Afghanistan è stata fatale al Pave Hawk HH-60G di Tamara Archuleta, 23 anni, di Los Lunas, New Mexico, precipitata mentre cercava di soccorrere un gruppo di bambini feriti. E a Fallujia è stato il fuoco nemico a strappare dal cielo Kimberly Hampton, 27 anni, detta «Cavallo pazzo », la prima donna pilota a cadere in Irak. Era figlia unica, aveva spostato le nozze con il suo Will per raggiungere la trincea. Scriveva a mamma: «Qualunque cosa mi succeda sappiate che l’ho fatta con amore».

La Camera Usa da tre anni ha votato un emendamento che impedisce alle donne di essere in prima linea ma nessuna legge può impedire loro di morire. Le donne sono oggi l'otto per cento delle forze armate britanniche e il 16 per cento di quelle americane, nella prima guerra del Golfo erano l'11 appena. Duecentomila donne che guidano caccia, trasportano truppe, fanno servizio di polizia. Ragazze che hanno vite normali, amori che li aspettano e i desideri di tanti. Karina Lau, 20 anni, veniva da Livingstone, in California, suonava il clarino, sognava, finita la guerra, di aprire un negozio di cd. Prima di salire sull’elicottero che l’avrebbe uccisa insieme a undici commilitoni, spedì una mail alla sorellastra Martha: «Non ti preoccupare, starò attenta». Le sembrava di avere la vita davanti. Elizabeth Loncki, 23 anni, mamma italiana di cognome Masiello è saltata in aria su una bomba vicino ad Al-Mahmudiyah. Due settimane dopo sarebbe tornata a casa, il fidanzato Jayson aveva appuntamento con papà per chiederla in sposa. Le aveva mandato un orsino di peluches e dei popcorn, così, per farla sentire un po’ a casa. Elizabeth Jacobson, 21 anni, era invece arrivata in Irak da meno di tre mesi quando un ordigno ha disintegrato il suo convoglio. Teneva un diario segreto, raccontava i bambini che voleva avere: «Vorrei un giorno morire felice dopo aver vissuto una vita che vale: stiamo sulla terra per poco, bisogna vivere con un sorriso».

Sarà ma è difficile trovarlo un sorriso davanti a Sam Williams Huff, piccola piccola, solo 18 anni, che aveva messo la divisa solo da majorette nella banda del paese a Tucson, in Arizona. Nonostante fosse minuta aveva un carattere di ferro, l’hanno uccisa dopo dieci settimane che era lì. Ognuna esorcizzava la guerra come poteva, Keicia Hines aveva appena ordinato un abito nuovo in un negozio trendy di Citrus Heights, in California, Princess Samuels si era portata in Irak la Barbie di quand’era piccola. Ma non è mai bastato per sentirsi al sicuro. Melissa Hobart, 22 anni, è stata uccisa proprio dal più silenzioso degli assassini. Un attacco di cuore. La paura. Le piacevano i libri di Stephen King, ballare, giocare a pallone. Lascia un bambino di tre anni, Alexis.

La via crucis di Padre Doug Duerksen è così, tutti i santi giorni. Ma stavolta non ha parole, né sguardi, né Dio per parlare.

Per dire al papà di Amy, diciannove anni, partita il giorno di Natale, che la sua bambina non c’è più. Amy Duerksen, sua figlia. Ci sono dolori pesanti come montagne. E leggeri come una letterina arrivata da Baghdad: «Ciao papà, io sono arrivata: e tu non smettere mai di aspettarmi...».
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