L’annuncio che chiuderà anche l’ultimo centro produttivo milanese dell’Alfa Romeo non può che lasciare un’ombra di tristezza. E ancora di più si è amareggiati se si considera che giunge a fine corsa proprio quel «centro stile» che aveva disegnato automobili note in tutto il mondo per la loro eleganza. Se andate nella sezione design del Moma, il museo di arte moderna, di New York non mancherete di imbattervi in modelli della produzione milanese d’antan che suscitano ancora l’ammirazione di tutto il mondo. In questo senso qualcosa perde anche la Fiat che non è stata capace di sfruttare bene questo «pozzo» di creatività meneghina. Anche, se spero che in un prossimo futuro, nel quadro della interessante discussione in corso per costruire sinergie tra il Politecnico di Torino e quello di Milano sia possibile trovare tutto lo spazio necessario per valorizzare a pieno questo «pozzo» milanese, un vero patrimonio nazionale testimoniato tra l'altro dalla rinascita della Triennale, pure nel design per prodotti industriali di massa. Se si guarda al passato, l’annuncio della chiusura dell'ultima produzione milanese dell'Alfa diventa la constatazione dell'ultimo atto di un delitto compiuto nella metà degli anni Ottanta da un Romano Prodi presidente dell’Iri (che costruiva allora la sua strategia di potere - reiterata in diversi ruoli negli anni Novanta e nel Duemila - senza capacità di visione, con alleanze subalterne alle varie forze industriali e finanziarie) e da una Fiat che invece di scegliere coraggiosamente la via del mercato (che in quel periodo proponevano tra gli altri Umberto Agnelli e Vittorio Ghidella) puntava principalmente sull’espansione di un potere più o meno feudale, teso a imbrigliare man mano la città della Madonnina. Forte fu anche la complicità del Pci del tempo (tranne l'ala milanese), dei Piero Fassino e di Bruno Trentin della Cgil, fatale fu per Bettino Craxi, allora capo del governo, il peso di un Giuliano Amato da sempre assai legato alla Fiat di Gianni Agnelli. Non vendere l’Alfa Romeo alla Ford fu un colpo sia per l’Alfa, sia per Milano e alla fine anche per la stessa Fiat a cui avrebbe fatto bene - l’ha riconosciuto perfino Luca Cordero di Montezemolo - una seria concorrenza.
Se dagli anni Ottanta si passa ai giorni nostri, invece, il giudizio sull’operare di Sergio Marchionne non può che essere positivo. Il dovere dell’amministratore delegato del Lingotto è di costruire una vera multinazionale, efficiente, preziosa per tutta l'Italia, che mantenga pure un ruolo anche sociale (in questo senso il contratto «separato» dei metalmeccanici che prevede solidarietà attiva per i lavoratori è esemplare) di abbandonare quella realtà feudal-consociativa che chiedeva al potere politico di finanziare inefficienze produttive. Una grande nazione moderna non può essere lasciata solo al mercato ma non può neanche finanziare inefficienze strutturali, fatte passare per strategie di sostegno sociale. E il trascinarsi della vita dell’Alfa ormai finiva per avere solo questo senso. Certamente Milano non può vivere con contentezza la fine degli ultimi simboli dell'Alfa, ma deve però richiamarsi alla sua tradizione di continuo rinnovamento, deve guardare all’attitudine di sapere accettare la chiusura di un ramo di attività recuperando e reimpiegando le creatività e capacità prima occupate in attività ormai finite.
Milano e la Lombardia vivono un periodo non privo di difficoltà, ma il tasso di attività economica è ancora quello di una delle aree più sviluppate d’Europa, che deve stare attenta a che non si disperdano qualità accumulate negli anni, ma che ha molte occasioni per riempiegarle. Facendo attenzione a che non si commettano soprusi come fu la cessione dell’Alfa alla Fiat, ma difendendo l’opera di manager come Marchionne che difendono l'efficienza.
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