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Urlare al dipendente davanti a tutti è mobbing

La dirigente di un'azienda milanese aveva vessato per mesi una dipendente con continue sanzioni disciplinari fino al licenziamento. La Cassazione ha stabilito che i rimproveri verbali costituivano mobbing

Urlare al dipendente davanti a tutti è mobbing

Roma - Trattare troppo male un lavoratore non paga. Questo non vuol dire che a un dipendente sia permesso tutto. Ma una cosa è certa: quando i rimproveri sono esasperanti, il tono della voce è eccessivamente alto e le rimostranze, più o meno violente, sono fatte davanti agli altri colleghi, siamo in presenza di mobbing. A stabilirlo è la Cassazione.

La sentenza Rischia una condanna per mobbing il capo che rimprovera continuamente con toni pesanti e davanti agli altri colleghi di lavoro un proprio dipendente. Lo si evince dalla sentenza n. 6907 della Sezione lavoro della Cassazione che ha confermato la condanna per mobbing di un’azienda milanese perché una sua dirigente aveva vessato per mesi una dipendente, Anna D., che ha avuto una serie di sanzioni disciplinari culminate nel licenziamento. Dopo 12 anni di lavoro nella stessa azienda (dal 1987 al 1999) Anna era stata licenziata dalla sua dirigente.

Primo grado e appello Ma la lavoratrice aveva fatto causa per mobbing, per i continui rimproveri e il clima vessatorio a cui ha detto si essere stata sottoposta per mesi. Il giudice di primo grado e la Corte di appello di Milano avevano riconosciuto i danni condannando l’azienda al risarcimento per 9.500 euro perché eccessivi sia i provvedimenti disciplinari sia il licenziamento.

Clima pesante Secondo i giudici d’Appello era chiaro come il "clima aziendale nei confronti della signora Anna fosse stato pesante, dato che i rimproveri orali da parte dei superiori venivano effettuati adottando toni pesanti ed in modo tale che potessero essere uditi dagli altri colleghi di lavoro".

Sanzioni illegittime La Cassazione ha confermato in toto la condanna ritenendo la sentenza "ampia, precisa, puntuale e del tutto logica e convincente". Secondo i supremi giudici "la sentenza impugnata aveva dimostrato come le sanzioni fossero illegittime e irrogate, in realtà "per ragioni strumentali ed in maniera sostanzialmente pretestuosa amplificando l’importanza attribuita a fatti di modesta rilevanza"

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