Rese famoso il marchio Louis Vuitton utilizzando la leggendaria valigia che il conciatore aveva confezionato per lui. Era un baule con brandina e scrittoio incorporati che, collocato in una tenda da campo, dava al viaggiatore un confort quasi casalingo. Un omaggio ben calcolato da Vuitton. Il ritorno pubblicitario fu enorme poiché l'italiano era una celebrità in Francia e un mito in Africa.
Il Nostro è il prototipo dei connazionali che, ignorati in patria, hanno fatto fortuna all'estero. Di nobile ceppo friulano, la famiglia si era stabilita nella Roma pontificia ormai ai suoi giorni estremi. Nacque a Castelgandolfo, la villeggiatura del papa, settimo di tredici figli del conte Ascanio e di Giacinta Simonetti, marchesa romana. Tredicenne pensò di farsi prete e mantenne poi una visione evangelica della vita. Prevalse però il sogno di viaggiare, alimentato dai racconti di alcuni zii giramondo. Terminati gli studi secondari, volle arruolarsi in Marina. Ma l'Italia, da poco unificata, non aveva ancora una vera flotta. Si trasferì allora in Francia e frequentò l'Accademia navale di Brest. Nel 1874, ventiduenne, divenne ufficiale e prese la cittadinanza francese.
L'anno dopo si imbarcò sulla Venus, una fregata che doveva sorvegliare le coste dell'Africa occidentale infestata dai trafficanti di schiavi. Con l'occasione, visitò l'entroterra sconosciuto agli europei. Risalì fiumi, traversò foreste. Si innamorò a tal punto dei luoghi e della gente da non volerli più abbandonare nei 30 anni che gli restarono da vivere. Fu a sua volta riamato dalle popolazioni nere che, tuttora, ne venerano il nome. Tant'è che nel 2005 il premier del Congo, Sassou Nguesso, ha stanziato dieci milioni dollari per un mausoleo in onore del beniamino. Alla posa della prima pietra, ha presenziato il presidente francese, Jacques Chirac. Il monumento è stato poi costruito a tempo di record e cinque giorni fa, col benestare dei discendenti italiani, la spoglia del Nostro è stata traslata da Algeri nella capitale africana.
Basteranno pochi cenni per spiegare una secolare popolarità. Sceso dalla Venus, l'ufficiale decise di battere palmo a palmo i bacini e le sorgenti dei fiumi tributari dei grandi laghi centroafricani. Era quello che stavano contemporaneamente facendo i britannici Livingstone e Stanley, quest'ultimo per conto della corona belga. La Francia appoggiò il progetto del concittadino, ma con la lesina. L'esploratore chiese allora aiuto finanziario alla famiglia italiana. La mamma vendette un palazzo in via del Corso a Roma, il padre alcune tenute di Brazzanico in Friuli, una sorella rinunciò alla dote. Raccolsero centomila lire-oro, sufficienti a dare respiro all'impresa.
Il Nostro si addentrò nella savana accompagnato dal capo tribù Renoke. Quando capì che costui in realtà cercava uomini da rivendere come schiavi, se ne fece acquirente lui stesso per liberarli e ingaggiarli invece come portatori stipendiati. È quanto farà tutta la vita, mentre il suo omologo Stanley, per dirne uno, girava accompagnato da centinaia di tiratori armati di carabine Schneider e si faceva strada sparando e uccidendo. «Non si passa col sangue», era il suo motto. Predicava i diritti umani e fu un esempio solitario di colonialismo illuminato. Promosse non solo la convivenza tra africani e europei, ma la pacificazione tra le tribù. Un giorno, radunò i capi clan e piantò con loro l'albero della pace. «Facemmo un buco nella terra - raccontò nelle sue memorie - e i due capi principali vi gettarono un carico di polvere da sparo e pallottole, io un pacco di cartucce. Poi fu piantato un albero. Ciò fatto, dissi: "Sia pace finché questo albero non produrrà pallottole, cartucce e polvere da sparo"» .
Fondò una città che ancora oggi porta il suo nome, l'unica in Africa che abbia quello di un bianco. Quando l'Urss 30 anni fa propose di cambiarlo in N'Tamo per cancellare ogni traccia del colonialismo, il Parlamento congolese respinse la proposta. Nominato governatore della colonia, tenne a freno gli appetiti di speculatori che volevano sfruttare le riserve minerarie e il caucciù. Si fece dei nemici. Accusato in Francia di «negrofilia» cadde in disgrazia e si ritirò a Algeri. Partito lui, 44 società si spartirono il territorio per l'estrazione di materie prime. Il Paese fu messo a soqquadro, gli indigeni obbligati ai lavori forzati, spesso uccisi con la dinamite per divertimento. Le efferatezze furono tali da indignare l'opinione pubblica francese. L'esiliato di Algeri fu ripescato. Le massime autorità parigine lo pregarono di condurre un'indagine in loco. Il suo arrivo fu accolto con esultanza dagli indigeni e annunciato col tam tam dei tamburi nella foresta. Indagò per quattro mesi, raccogliendo innumerevoli prove dei massacri. Mentre riattraversava l'Africa per dare la sua testimonianza in Francia morì all'improvviso a Dakar.
Secondo molti, cominciando dalla moglie, Thérèse de Chambrun, era stato subdolamente avvelenato per metterlo tacere. Ebbe solenni funerali a Parigi. Per sua volontà fu sepolto in Africa, ad Algeri. Thérèse fece scrivere sulla lapide: «La sua memoria è pura di sangue umano».
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