Larrivo di Robert Gates al Pentagono è stato salutato da molti come il preludio al ritiro delle truppe americane dall'Irak. L'ex direttore della Cia però sembra destinato a deludere chi sogna il rompete le righe immediato. Gates è uno degli esponenti dell'Irak Study Group (ISG), un gruppo di studio bipartisan creato nel marzo 2006 durante un vertice a Capitol Hill. Il presidente Bush, insieme a Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Condoleezza Rice, ha incontrato i suoi componenti il 14 giugno scorso per ascoltare le loro proposte sulla gestione del dopoguerra iracheno. L'ISG è un'organizzazione indipendente dalla Casa Bianca ma i suoi ispiratori di scuola «realista» sono persone vicine alla famiglia Bush, vecchie conoscenze: James Baker fu l'ex segretario di Stato di Bush padre e lo stesso Gates è stato direttore di Langley dal 1991 al 1993. Faranno la rivoluzione copernicana della dottrina Bush? Il problema della Casa Bianca non è la guerra in sé, non è lidea originaria di rovesciare Saddam, ma la conduzione del dopo-guerra. Nessuno oggi ricorda che il tasso di fiducia degli americani nei confronti del Presidente Bush allinizio del 2004 (sondaggio della Pew Research del 22 gennaio) era del 65%, due terzi del Paese approvava la linea della Casa Bianca e pensava che la guerra fosse «the right decision», la decisione giusta. Questo patrimonio di consenso è stato disperso per una serie di problemi ed errori che oggi appaiono forse più chiari, ma la cui soluzione è più lontana di quanto si pensi.
La «visione» della guerra del Pentagono era limitata sul piano militare e quasi cieca sul piano politico. Mentre autorevoli studiosi di strategia e storia militare sostenevano che in Irak (un Paese con 26 milioni di abitanti che si estende per 437mila chilometri quadrati, circa centomila in più dellItalia) occorrevano più truppe, la Difesa elaborava un piano per stabilizzare il Paese dopo linvasione e la caduta del regime con poco più di centomila soldati. Sottostimando limportanza della fanteria e limitando le operazioni search and destroy si è concesso ai terroristi uno smisurato spazio di manovra. La cosa incredibile è che nelle mura del Pentagono avevano tutti gli strumenti per capire che la strategia di una forza doccupazione limitata sarebbe fallita. Qualche giorno fa il National Security Archive ha pubblicato un dossier segreto illuminante: nellaprile del 1999 il generale Anthony Zinni, comandante del CENTCOM, condusse un war game chiamato Desert Crossing, la simulazione di una campagna militare in Irak che - pur prevedendo linvio di 400mila soldati, un impegno enorme di uomini e mezzi - sollevava fortissimi dubbi sulla tenuta della sicurezza, parlava della «frattura tra le etnie», «le forze rivali in competizione per il potere», «laggressività dei Paesi confinanti». Ce ne sarebbe stato abbastanza per consigliare unaltra strategia, ma il mito delle «perdite zero» aveva minato dallinizio le scelte dellamministrazione. Meno di un mese dopo lattacco alle Twin Towers, il Dipartimento di Stato cominciava a lavorare a un altro documento strategico, The Future of Irak Project, che oggi risulta profetico: la massa di informazioni contenuta (1200 pagine), gli avvertimenti, le raccomandazioni, i problemi che gli Stati Uniti stanno affrontando nel dopo-Saddam erano elencati uno per uno. Il Pentagono preferì ignorare quel documento e procedere sulla strada di un insufficiente impegno militare e una scarsa percezione della situazione politica irachena e soprattutto dei Paesi confinanti, Iran in testa.
Che fare oggi? Larrivo di Gates era necessario per ragioni politiche (è un segnale all'elettorato repubblicano in vista della corsa presidenziale del 2008) e Bush ieri ha ribadito ai democratici di essere «aperto a qualsiasi idea e suggerimento». Quali suggerimenti? Secondo George Friedman, fondatore di Stratfor, il presidente Usa non può ignorare alcune delle raccomandazioni dellIrak Study Group (di cui Gates era esponente di punta) perché rischia «la perdita del consenso della base repubblicana nel Congresso».
Il problema numero uno resta quello della sicurezza, obiettivo arduo quando si collabora con soggetti che lavorano dietro le quinte per minare, letteralmente, la fazione avversaria. Tra sunniti, sciiti e curdi non cè alcun consenso su cosa debba essere lIrak e la strategia degli sciiti - alimentata dallIran di Ahmadinejad - di affrontare i sunniti con le bombe e non nellarena politica è un gigantesco problema che i militari non possono risolvere senza laiuto della diplomazia. Si può trattare con lIran che sta costruendo la bomba atomica? I realisti sono convinti non solo che si può, ma che sia necessario perché dopo la sconfitta di Bush nelle elezioni del mid-term a Teheran la tentazione di infliggere il colpo del ko e costringere gli Stati Uniti al ritiro è forte. Questo significherebbe però consegnare il Paese allIran e perciò il ruolo delle truppe americane in Irak è destinato a cambiare: non più continue operazioni sul fronte della sicurezza (che dovrebbero essere affidate in gran parte alle forze irachene) ma il controllo dei confini e il contenimento delle infiltrazioni di terroristi e armi dallIran. Chiuso il canale militare, è molto probabile che si apra quello diplomatico.
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