da Milano
Con il Piano Marshall, l’America aveva ricostruito l’Europa devastata dalla Seconda guerra mondiale. Con una cifra 10 volte superiore alla spesa di allora, l’America prova oggi a cementare le proprie fondamenta economico-finanziario, dove l’acqua della crisi si è infiltrata minacciandone le strutture portanti. Potrebbe infatti costare 1.000 miliardi di dollari, per intenderci la stessa cifra con cui il Fmi ha stimato le perdite globali da subprime, lo sforzo da New Deal del terzo millennio con cui Washington intende mettere fine a una delle pagine più nere della storia Usa.
L’imperativo è estirpare il tumore prima che sia troppo tardi, liberando le banche da tutte le scorie velenose accumulate, proteggendole con un fondo-paracadute. Come quello che servì negli anni ’80 a reagire al catastrofico momento di 1.400 casse di risparmio. A questo primo pilastro, annunciato giovedì sera, ne è stato aggiunto ieri un secondo sotto forma di un altro fondo da 50 miliardi che servirà a sostenere i fondi monetari, sottoposti all’ondata dei riscatti da parte dei risparmiatori. Misure di emergenza dal costo altissimo, a carico delle casse federali e, in definitiva, dei già indebitatissimi americani.
Ma non c’era altra scelta. Anche se l’interventismo statale può apparire eccessivo, considerate la recente nazionalizzazione di Aig e l’aver messo sotto tutela Fannie Mae e Freddie Mac, e cozzare contro i principi del liberismo. «Non c’era scelta»: è questo che George W. Bush ha detto ieri a chiare lettere, sottolineando come la gravità della situazione imponga «azioni senza precedenti. Il rischio di non intervenire in modo deciso in questo momento - ha aggiunto - sarebbe ancora peggiore». Il presidente, spalleggiato ieri da tre «angeli custodi» come il segretario al Tesoro, Henry Paulson, il capo della Fed, Ben Bernanke, e quello della Sec (la Consob Usa), Christopher Cox, ha ammesso che il piano d’intervento federale «pone una notevole quantità di denaro dei contribuenti» in gioco, mostrandosi tuttavia fiducioso sulla possibilità di «poter recuperare la maggior parte dei soldi dei contribuenti».
Se il presidente Usa ha evitato di entrare nel dettaglio dei costi, meno evasivo è stato Paulson, che ha parlato di «centinaia di miliardi di dollari». Ancora più precisa la stima del senatore repubblicano Richard Shelby, numero due della commissione Bancaria: «Credo che costerà almeno 500 miliardi - ha detto Shelby alla Abc -, ma se si guarda a ciò che la Fed ha già fatto e all’estensione dei poteri del Tesoro su Fannie e Freddie credo che si parli di circa 1.000 miliardi». I conti fatti da alcuni analisti sono anche più salati e si spingono fino a 1.200 miliardi: 800 per il maxi-fondo destinato a ripulire i bilanci bancari e altri 400 per assicurare i depositi.
Paulson, ex guru di Wall Street, nonché amico personale di Bush (per lui è «Hank»), è comunque convinto che il piano costerà alle famiglie «meno di altre eventuali alternativa». Solo così, d’altra parte, era possibile dare un segnale forte, di massimo impatto ai mercati finanziari. Le soluzioni caso per caso, come quelle adottate nelle scorse settimane, non bastavano più. La fiducia non tornava. Ecco, quindi, l’idea della bad bank, il cestino in cui raccogliere i rifiuti tossici degli istituti di credito; ecco la ciambella di salvataggio lanciata ai fondi monetari, essenziali per riportare equilibrio sui mercati.
Mosse estreme, da approvare prima che il Congresso vada in vacanza, a fine mese, per la pausa elettorale.
Nel briefing ai parlamentari, giovedì a Capitol Hill, Paulson e Bernanke sono stati brutali: in caso di mancato via libera al provvedimento, le conseguenze saranno agghiaccianti.
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