E se fossero gli abitanti a decidere le loro architetture? Se fosse ciascuno di noi, da domani, a pensare e progettare gli spazi della sua vita sulla base delle proprie esigenze primarie? Utopie sì, ma realizzabili, risponderebbe Yona Friedman, l'architetto franco-ungherese che ci ha abituato a immaginare panorami visionari ma tremendamente attuali. Lo pensava già trentacinque anni fa, quando il suo libro di maggiore impatto, Utopies réalisables appunto (in italiano, con un po' di fortuna, lo si trova in un'edizione Quodlibet del 2003, con traduzione di Susanna Spero), fece il giro del mondo destando le critiche dei tecnici e il plauso di tutti gli altri. Così come piacciono a moltissimi, ma fanno storcere il naso ai puristi, i manuali per l'autoprogettazione illustrati con fumetti per permettere a chiunque di pianificare e realizzare la propria abitazione. E quindi la propria città. Oggi Friedman sbarca in Lombardia per la sua prima personale in una galleria italiana, tre anni dopo aver presentato, al Mart di Rovereto, le sue prime due opere entrate nella collezione di un museo del nostro Paese. La mostra, alla Galleria Minini di Brescia (fino al 16 gennaio, 030-383034, www.galleriaminini.it) si chiama «Cartoline postali» ed è curata da Maurizio Bortolotti. Le «cartoline» esposte, insieme con alcuni filmati d'animazione e un plastico del ponte della Libertà a Venezia, sono immagini delle città di Brescia e Venezia, due realtà diverse accomunate da un sottile legame di appartenenza a un medesimo territorio, dove Friedman è intervenuto con realizzazioni basate su modelli non geometrici, irregolari. Alla base c'è l'idea della Ville spatiale, elaborata negli anni Cinquanta quando, all'indomani della devastazione provocata dal secondo conflitto mondiale, «non c'era altra possibilità se non quella di costruire qualcosa di nuovo». E di nuovo nella Ville c'era proprio tutto: strutture sopraelevate in grado di contenere le funzioni urbane, architetture mobili, spazi organizzati in modo da determinare le relazioni sociali. Eh, sì, perché nell'ipotesi radicale di Friedman, l'intero sistema sociale si realizza a partire dall'individuo e dal sistema di influenze esercitate attraverso la capacità di comunicare. Un'economia della comunicazione che l'architettura deve contribuire a realizzare, suddividendo le città attuali, destinate al collasso, in ridotti gruppi critici di dimensioni ottimali. Messaggi d'impatto, che colpiscono al cuore le fragili certezze della società contemporanea: tanto che non molti anni fa l'architetto-educatore Pier Vittorio Aureli, scrivendo di Friedman, ha saggiamente ricordato, senza tema di scomodare due mostri sacri, la sottile lettura gramsciana di Machiavelli, da cui emergeva in traluce l'utopia di un progetto inteso come criterio dell'agire, realizzabile da individui che vi partecipino e non si limitino a subirlo. Sociologia, prima ancora che architettura. Da poco uscito per Bollati Boringhieri è il volumetto L'architettura di sopravvivenza (167 pp, 16 euro). Un'opera apparsa per la prima volta nel 1978, in un mondo minacciato dall'onda lunga della crisi petrolifera di cinque anni prima, e oggi, se possibile, ancora più attuale di allora: architetture mobili, decorazioni effimere, villaggi urbani, foreste abitabilizzate, case-labirinto.
Un dialogo incessante dell'organismo con l'ambiente, che prevede l'adattamento dell'uno all'altro e viceversa, sullo sfondo dell'imprevisto e dell' «antiabitudine». In un'epoca che deve cominciare a fare i conti con l'impoverimento delle risorse disponibili e con la necessità di ripensare le dimensioni ottimali delle città e delle nostre relazioni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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