Irene Liconte
«La vecchiaia è già una malattia», sentenziava il poeta latino Terrenzio; e, nonostante i progressi della medicina, la situazione non sembra molto più rosea ai giorni nostri. È il tema su cui è incentrata «Vuoti a rendere», commedia all'italiana di Maurizio Costanzo, presentata in prima nazionale stasera in Pazza S. Agostino a Verezzi alle 21.15. Sospeso tra malinconia e divertimento, lo spettacolo è interpretato da Valeria Valeri e Paolo Ferrari per la regia di Giancarlo Zanetti: e proprio questi tre artisti, dopo alcuni allestimenti poco felici di altre compagnie, portarono al successo nel 1980 la commedia, riproposta per la terza volta in questa nuova edizione.
«La fortuna della pièce si deve alla bravura e il brio della Valeri e di Ferrari, che si cimentano tra l'altro in cambi di costume da effettuarsi in 30 secondi, per adattarsi ai salti temporali della commedia. L'idea di ripresentare questo testo è nata con il ritorno di Paolo Ferrari, dopo impegni teatrali lontani dalla commedia all'italiana, come il bellissimo e recente "Sostiene Pereira"» spiega Giancarlo Zanetti. Isabella e Federico sono due anziani coniugi che si ritrovano sfrattati dal loro unico figlio, Marcello, dalla casa che ha visto vent'anni della loro vita; più «adatta alla loro età» è la tranquilla sistemazione nella casa di campagna. Il trasloco, pregnante metafora dell'esilio imposto alla coppia dalla vita attiva, diventa così occasione di ritornare con la memoria al passato, ai bei ricordi come ai rimpianti che si effondono dai bauli preparati per la partenza. Invisibile motore dell'azione è il figlio, la cui presenza aleggia in scena senza però mai comparire, come un deus ex machina che ha emanato la sua sentenza ed è ormai incurante delle conseguenze: un'assenza che conferisce una nota amara in più alla storia, ma impedisce anche che la commedia, gradevole e brillante, degeneri in dramma e conflitto generazionale.
«Vuoti a rendere»: dal titolo si sprigiona la malinconia soffusa e temperata dal sorriso del bilancio forzato di una vita ormai quasi completamente alle spalle, a cui ci si volge con nostalgia e qualche rimpianto. Dei «vuoti» che presuppongono però una grande pienezza: Federico e Isabella hanno infatti attinto senza risparmio alle proprie energie e risorse per crescere il figlio che ora li vuole parcheggiare in campagna. Dei «vuoti» che sono colmi delle esperienze di un'intera esistenza, sia quelle affrontate insieme, sia quelle che li hanno toccati singolarmente; e frammenti del assato e sogni di ciò che avrebbe potuto essere si materializzano in una «stanza dei ricordi», fugaci visioni che animano uno spazio segreto, una «quarta dimensione» sapientemente evocata in scena dalla regia, accanto alla casa stile anni '50 in cui è ambientata la storia.
Lo spettacolo è intenso e delicato: il ripudio filiale non è vissuto con i toni quasi apocalittici di «Re Lear», Federico e Isabella vivono una quotidianità nella norma. Lui, uomo mite e delicato, non è riuscito a imporsi sul lavoro e non ha fatto carriera, superato dal raccomandato di turno; però può affermare con giusto orgoglio «io sono onesto».
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