Cultura e Spettacoli

Van De Sfroos, il più italiano dei cantautori

Le sue storie raccontano davvero l’intero Paese. Anche se sono cantate con accento "laghèe"

Van De Sfroos, il più italiano dei cantautori

nostro inviato a Como

Se poi, ta ta ta!, la rullata di batteria di El carneval de Schignan ti porta dentro una festa fatta di racconti e vita, di dolori inarrestabili ma anche eroici e di quelle storie che tutti ci portiamo dentro nella memoria ma non ci pensiamo mai perché c’è la tv, ci sono le bollette e il week end, ecco allora questo è nuovo cd di Davide Van De Sfroos, che solo per caso si intitola Yanez come la canzone che l’ha portato a Sanremo («L’avrei chiamato così anche se non ci fossi andato») perché con la caciara festivaliera questo quarantenne c’entra minga, come dicono da queste parti. Lui, che parla una lingua farcita di passato e di fascino, dice che è il suo album "più romantico, e non sto parlando di cioccolatini o di San Valentino". Macché, sta parlando con le spalle girate al Lago di Como, in una villa che sembra dell’Ottocento e che è l’immagine di questa gente asciutta e laboriosa. E sta parlando come il più italiano dei nostri cantautori anche se canta in dialetto, in laghèe per la precisione, quella lingua che è più o meno la stessa di Renzo e Lucia e che dannatamente si piega al racconto della vita di tutti dovunque, da Trieste in giù, dove ciascuno ha il suo Camionista Ghost rider che racconta di aver dato un passaggio ai grandi della musica, persino a Woody Guthrie, oppure ricorda l’amore storto di una Figlia del tenente e la bocca di rosa di una Maria disgraziata che ha accompagnato una generazione di ragazzi vogliosi di diventare uomini.
Se ci pensate, tanto che gli intellettuali e i giornalisti si accapigliavano sul presunto leghismo di Davide Bernasconi diventato Van De Sfroos in omaggio ai contrabbandieri del lago che "van de sfroos", che andavano di nascosto da una parte all’altra della frontiera, ecco mentre lo accusavano di essere un leghista duro e puro, di quelli che viva Bossi e viva Alberto da Giussano, lui girava l’Italia dappertutto scoprendo di essere davvero quella roba lì, italiano che parla di cose italiane, i valori e gli amori, la famiglia, gli amici, "entrando nudo sul palco o in sala d’incisione" come dice con accento comasco e rotondo ma essendo lucidamente comprensibile da tutti, anche solo per intuizione.
A Sanremo lì per lì la sua Yanez ha spiazzato chi non s’aspettava di sentir parlare di Sandokan che "canta Romagna mia" ma ora eccola qua che è trasmessa da tante e tante radio ovunque, persino in Sardegna o nel più alto dei paesini valdostani. Per diana, lui è "italiano, figlio e discendente di gente che ha combattuto per l’Italia, nessuno, né la Lega o Cl o la Festa dell’Unità ha mai potuto mettere il marchio sui miei concerti: e dopodomani sarò a Torino per la Festa nazionale perché la mia bandiera è il tricolore". Quando suona però, con la sua band di gente con le palle, la sua bandiera ha più colori, quello del folk naturalmente ma pure country, rock timido, suoni provenzali e zingari, persino Caraibi prima che arrivassero gli americani in vacanza. E allora questo cd Yanez è una bella enciclopedia di musicale - e per giunta personale come poche -, oltre che un diario dal passato della "cedrata Tassoni" di Setembra fino alle angosce tutte di oggi di Long John Xanax "con un plettro e una pastiglia" e capite di quale pastiglia si parli. Ansia. Incubi. Inadeguatezza. Progetti. Molto ma molto raramente un cantautore che non si sia autopromosso a maitre â penser, che non abbia l’applauso incondizionato della gente che piace, è riuscito con tanta intensità a parlare la lingua di tutti. Cronista per forza. Poeta per vocazione. E politico perché inevitabilmente lo è anche chi non ha tessere e si può permettere di riunire in "Dove non basta il mare" le voci friulana di Luigi Maleron, siciliana di Patrizia Laquidara, calabra di Peppe Voltarelli e persino greca di Roberta Carreri, giusto per dire che cambiano solo gli accenti o le declinazioni ma siamo tutti la stessa cosa, con le storie che nascono sempre nuove dal ceppo vecchio, quello della memoria. E quindi lui è passato da Sanremo solo per confermare all’universo mondo un’italianità che le beghe politiche spesso minimizzano.

E non sa neppure se ci tornerà perché "non è che ogni cinque minuti mi viene voglia di andare al Festival e comunque è molto difficile che canti in italiano", dice enfatizzando le pause, quasi per far capire finalmente che non è così importante che canti in italiano perché queste canzoni sono Italia pura, vera, che ciascuno si ritrova sotto casa, basta solo volerlo.

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