Vanacore, il suicida ucciso dalla non giustizia

Ogni vita ha il suo mistero, anche la più semplice, ma nessuna ci mette di fronte al limite dell’uomo e alla sua disperazione come una vita volontariamente interrotta. Il mistero più grande resta quello dei suicidi. Nel corso di decenni, nelle terribili tensioni fra giustizia e politica, non sempre i criminali hanno pagato, ma spesso hanno pagato troppo i più deboli. E non perché colpevoli. Qualcosa di più e qualcosa di peggio, per la sproporzione fra la colpa eventuale e la punizione, soprattutto se determinata da un abisso della coscienza o dalla paura del giudizio degli uomini, inteso come considerazione sociale. Così abbiamo assistito con sgomento ai suicidi di politici senza colpa come Sergio Moroni, di imprenditori come Raul Gardini, di amministratori di aziende di Stato come Gabriele Cagliari. Quest’ultimo ha denunciato la sproporzione fra il trattamento a lui e a pochi altri riservato rispetto a comportamenti di tutti. E la sua lettera è una denuncia più dell’insufficienza della giustizia che dei difetti del sistema.
Ma il suicidio più clamoroso fu certamente quello del grande magistrato Luigi Lombardini che, al sommo della vergogna, dopo un interrogatorio nella sua sede giurisdizionale a Cagliari condotto con esemplare severità da Giancarlo Caselli e dai suoi aggiunti e sostituti, si sparò. Logico il collegamento fra la brutale azione giudiziaria, anche formalmente corretta, e il gesto disperato. Ma di fronte a comportamenti come questo non sempre prevale la pietà o l’indignazione per la violenza della giustizia, taluno insinua il dubbio di una ammissione di colpevolezza. Si è suicidato per la vergogna, perché sapeva di essere colpevole. E se per taluni questa risposta è una consolazione, e un modo per superare il senso di colpa, per chi crede nella necessità del perdono, dell’indulgenza e della comprensione anche per il colpevole, il suicidio di una persona incriminata è sempre una sconfitta della ragione. Segnala la mancanza di rispetto, una inaccettabile sproporzione. Chi si suicida cerca una via di fuga, non ha più la forza di affrontare il mondo che lo guarda con occhi diversi, e tantopiù se nel suo intimo sa di essere innocente.
Così, siccome anche nello spirito più garantista trova spazio, senza possibilità di limitare la forza del dubbio, il giustizialista, che cerca di ricondurre alla ragione anche l’irrazionale, quando, questa mattina, ho letto del suicidio di Pietrino Vanacore, immediatamente ho pensato che fosse colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, e che dopo vent’anni si rivelasse con il suo disperato gesto. Ho pensato al suicidio come ammissione di colpa, perché non ho voluto pensare al tormento di un sospetto che lo ha accompagnato nel corso di questi anni. Poi ho letto che l’atto non era collegato a nuovi sospetti, ma all’ossessione di non potersi liberare di una vicenda nella quale era stato coinvolto. Cosicché era previsto che egli fosse chiamato a testimoniare nell’udienza del 12 marzo del processo per cui oggi è indagato l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, Raniero Busco.
Il mistero rimane, e il gesto non lo scioglie ma lo fortifica, togliendoci la possibilità di conoscere una verità che Vanacore ha preferito portare con sé. Apparentemente la spiegazione è nel messaggio che egli ha accompagnato al suo gesto definitivo: «Vent’anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio». Sarà veramente così? E sarà un’ulteriore dimostrazione della lentezza, della inefficienza, della prepotenza della giustizia che non riuscendo a trovare un colpevole tiene sospeso, nella incertezza, un innocente? Se non una confessione cosa può venir fuori dopo vent’anni? E attraverso quale credibilità di indizi e prove? Vanacore aveva già deciso di morire al momento della prima incriminazione. Nel corso di vent’anni si è accorto di non esserne uscito. E la convocazione in tribunale lo ha riportato alla violenza di quei giorni. Forse temeva di essere richiamato in correità? Sembrerebbe di sì a leggere le dichiarazioni dell’avvocato Paolo Loria, difensore di Raniero Busco: «Lui ha vissuto col rimorso sulla coscienza questa storia, e non perché fosse l’autore dell’omicidio, ma perché sapeva... Evidentemente, però, non poteva parlare neanche a distanza di anni».
È un’interpretazione che potrebbe spiegare perché neppure l’identificazione di un nuovo indagato aveva avuto il potere di sollevare Vanacore dal rimorso.

Ma un suicidio resta troppo per un uomo, e indica il momento di maggior debolezza di una personalità evidentemente fragile. La colpa non è nell’atto, nell’assassinio, ma nel coinvolgimento, nel sospetto da cui la giustizia degli uomini non è stata capace di sollevarlo. Infinita pietà per Vanacore, e mistero che non si dissolve.

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