Vanoni e Paoli, un amore lungo una vita

«Non mi ricordo» con la regia di Maurizio Costanzo

Enrico Groppali

Riprende il tour di Ti ricordi? No, non mi ricordo. Di nuovo insieme: Ornella Vanoni e Gino Paoli saranno da stasera a giovedì al Teatro Nazionale. Lei era la musa di Giorgio Strehler, aveva frequentato la scuola di recitazione del Piccolo Teatro, a quell'epoca la più prestigiosa d'Italia, e non pensava affatto al canto prima che il maestro di via Rovello la inserisse nello spettacolo più lungo e più costoso della sua carriera, I Giacobini di Zardi facendole interpretare due canzoni scritte su misura per la sua voce sensuale e roca che a molti ricordava i toni bassi e insinuanti di Marlene Dietrich.
Lui veniva da Genova, aveva cominciato come pittore e, nei locali fumosi vicino al porto dove si radunavano artisti e marinai come nei romanzi di MacOrlan, discuteva fino all'alba d'arte e di rivoluzione coi suoi amici che volevano cambiare il mondo. Lei, l'abitino nero che le stava stretto sui fianchi generosi, intonava tra un quadro e l'altro del testo che parlava di reali ghigliottinati, di aristocratici imprigionati e della macchina del Terrore che, implacabile, mieteva vittime dei versi che dicevano La Seine est rouge del sangue degli oppressori mentre Les rois s'en vont al patibolo.
Lui, verso l'alba accompagnandosi alla chitarra, con la gatta che gli dormiva placida accanto, con la sua voce più rauca della carta vetrata cantava dei songs dove l'amore era solo un ricordo sfocato nella nebbia perché la donna, nelle sue canzoni, svaniva con l'ultimo accordo lasciando in bocca l'amara impronta della sua presenza in un guanto dimenticato e in un profumo che si ostinava a sottolinearne un gesto.
Lui approdò alla Ricordi coi suoi occhiali dalla montatura spessa che, con la scusa della miopia, tramutavano il suo volto nella maschera scostante di un alieno, lei giunse alla stessa casa discografica per registrare quelle Canzoni della Malavita dove gli spacciatori venivano fulminati da una raffica di mitra mentre, in bicicletta, seguivano l'itinerario di un vecchio tram cigolante sui Navigli.
Lì i due si incontrarono e subito si innamorarono, uniti dalla timidezza, entrambi in lotta contro un mondo che appena conoscevano ma di cui già intuivano l'esasperata crudeltà nel rigettare ai margini chiunque non avesse abbracciato la religione del profitto.
Lui, Gino Paoli, conobbe Ornella Vanoni. E lei, per amor suo, abbandonò il rigore messianico di Strehler mentre lui, al pianoforte, compose su quei capelli scomposti e su quella bocca, larga e generosa come una ferita, la più bella delle canzoni d'amore che un poeta abbia mai dedicato alla sua donna: Senza fine. Perché Senza fine narrava lei con la sua voce d'ombra dove la luce gettava improvvisi raggi di sole «tu trascini la nostra vita, senza un attimo di respiro per amare, per potere ricordare ciò che abbiamo già vissuto... senza fine».


E senza fine si rivelò poi la loro storia anche quando, ogni passione spenta, ognuno se ne andò per la propria strada, lui chiosando le note nei soprassalti del suo falsetto più acuto dello stridere delle rondini, lei declamando col pianoforte in sottofondo i poeti del pentagramma coi titoli che, nel tempo, hanno scandito ogni attimo della nostra vita ma per tornare inesorabilmente a lui coi «Sassi», miseri resti di un amore perduto.

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