Il Vasco mai sentito. Anche il Forum sembra uno stadio

Ieri sera il primo degli otto concerti milanesi "sold out". In scaletta anche brani vecchi come "La nostra relazione"

Il Vasco mai sentito. Anche il Forum sembra uno stadio

Milano - Innanzitutto un po’ di pace. No, non nel senso che il concerto di Vasco Rossi sia un placido trallallero senza emozioni. Tutt’altro: quando è salito sul palco del Mediolanum Forum ieri per il primo degli otto concerti quasi consecutivi e tutti esauriti, la sberla rock di «Ho fatto un sogno» ha subito fatto vibrare le poltroncine e alla fine l’eco zigazagava ancora sotto le volte. Però Vasco Rossi, anche adesso alla vigilia dei 58 anni, mette d’accordo tutti, nessuno che lo contesti, nessuno che lo critichi se non per vezzo o inutile ribellismo, come quel giornalista che lo definì «tacchinone», o quell’altro che lo scoprì «sguaiatamente truzzo», come se Vasco non si vestisse o non parlasse come un uomo qualunque che meno truzzo non si può.

È beatamente il miglior rocker italiano e pure il più libero, costi quel che costi, e spesso gli costa assai. Potesse, ne direbbe di tutti i colori. Ma avendo rispetto del potere, specialmente del suo, tace. Perciò, parlando di lui a un Porta a Porta, gli ospiti starebbero solo seduti da una parte, quella a favore, e vai a trovarlo un kamikaze che si immoli sulle altre poltroncine. Il Vascocentrismo mette pace. Al limite Veltroni critica la scelta di Bersani di eleggere a inno del Pd la canzone Un senso perché ha quel verso, «Voglio trovare un senso a questa storia anche se questa storia un senso non ce l’ha», che sembra scritto apposta pure se Vasco al Pd manco ci pensava.
Anche qui al Forum, mentre lui snocciola quasi tre ore di concerto con i suoi classici e un pugno di canzoni, qualcuna vecchia di 32 anni come La nostra relazione (primo brano del primo disco, 1978, c’erano ancora Paolo VI in Vaticano e Giovanni Leone al Quirinale), nessuno pensa al Pd e nessuno neanche litiga. Vasco è un rito, d’accordo. Ma è soprattutto una festa, con i suoi colori caserecci, gli odori che fanno della platea, qui la mortadella e di là la porchetta nel panino, una cartina dell’Italia che se ne frega della D’Addario e di tutte quelle cose lì perché è impantanata nell’esistenza quotidiana, nel cotidie vivere che qualche volta val bene una canzone come l’iniziale Ho fatto un sogno (da Tracks 2), un’invettiva contro chi si occupa degli affari degli altri, insomma contro il pettegolismo senza «se» e senza «ma» eppure con tanti chissenefrega. «Morgan? La mia stima e la mia simpatia nei suoi confronti non hanno subito alcuna flessione come invece oggi ha fatto il Dow Jones», aveva detto prima di salire sul palco.

D’altronde Vasco Rossi è uno che se ne frega ma solo musicalmente parlando, sa tutto perché legge come un forsennato, e per il resto si fa i fatti suoi, senza spettacolarizzazioni, mercanti nel tempio, sbrodolature di ego oggi tanto di moda. Gli basterebbe un niente per fare una primaseratona in tv da dieci milioni di spettatori e via andare. Ma quando è apparso al Festival di Sanremo anni fa, «per restituire il microfono che mi ero portato via la prima volta», ha fatto una faticaccia a mettersi in posa per farsi celebrare come un dio, lui che vive diluito nei dubbi. Preferisce il palco, che è la vetrina dove sudi, sbuffi, magari stecchi pure, ma sei quello lì e di quello ti prendi le tue belle responsabilità e stop.

Qui, puntuale come sempre, sale sul palco, vestito al solito con i jeans e il giubbotto di pelle nera che si toglie subito, caracolla, sorride, canta, lascia partire una band che non si ferma più, perfetta, roboante, giovane anche se piena di rughe che si riflettono sui cubi della scenografia, metallici, incombenti, quasi inquietanti così pieni di spigoli. Dimenticasse, Vasco, il testo delle sue canzoni, ci sarebbero come al solito gli undicimila e rotti paganti del Forum a ricordargliele. Una per una, mica solo Albachiara o Una canzone per te. Di ognuna si è parlato cento e cento volte, sono il vocabolario di una generazione vera e piena di errori e non c’è un titolista di giornale che non abbia usato la «vita spericolata» per rendere il senso di un articolo. Spesso sbagliando, spesso a sproposito perché di quella vita Vasco non ha reso l’euforia incosciente, bensì il cosciente dolore, spericolato perché squilibrato.

E anche qui, quando si mette sul proscenio, con la chitarra acustica, lui e lei da soli, e squaderna due, tre ballate come Sally o Dillo alla luna spiegando come sono nate le sue canzoni, ecco Vasco che, a tu per tu con il suo mondo di angosce, immani perfezionismi e immanenti obiettivi, non fa altro che essere se stesso, l’ombelico del

Vascocentrismo di cui tutti si beano perché trovatelo un altro che mette d’accordo tutti, che mette pace facendo un casino dell’altro mondo e che, quando qualcuno lo critica, nessuno gli risponde perché tanto si commenta da solo.

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