Vaticano

La grande lezione di Ratzinger a Ratisbona

Nel 2006 Ratzinger tenne il celebre discorso di Ratisbona. L'importanza, sempre attuale, del suo messaggio

La grande lezione di Ratzinger a Ratisbona

Nel nostro tempo soggetto a rapidi mutamenti, raccontare eventi di soli pochi anni fa può talvolta risultare un esercizio difficile, faticoso. Specie quando la memoria riguarda fatti tremendi, che la vita tende a rimuovere. O un pensiero del passato che sembra terminato, sigillato, tanto da non poter più fare ritorno.

Era il 2006, altre paure angosciavano l’Occidente. Non solo i postumi di guerre lontane, in Iraq e Afghanistan, ma il ricordo ancora vivo degli attentati di Londra del 2005, o di quelli di Madrid del 2004. Un uomo vestito di bianco, un grande e mite teologo, forse il più grande teologo cattolico del XX secolo, ritorna nella sua università di Ratisbona e tiene una lezione che suscita scandalo e divisione. Quell’uomo è Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI, e la sua lectio magistralis passerà alla storia come Il discorso di Ratisbona.

Il papa ha un solo obiettivo: mostrare che fede e ragione si tengono per mano. Che la tradizione greco romana non è stata cancellata dall’avvento del Cristianesimo. Al contrario, fede biblica e “interrogarsi greco” hanno vissuto un fondamentale avvicinamento. Così la fede cristiana ha sin da subito, fin dall’incipit del Vangelo di Giovanni, riconosciuto in Dio il logos “insieme, ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi, ma, appunto, come ragione”.

Così, Benedetto XVI, fa riemergere dalle coltri del passato, le parole di un imperatore bizantino, Manuele II Paleologo – padre dell’ultimo imperatore dell’Impero Romano, Costantino XI Paleologo – che, sul finire del XIV secolo, mentre era ostaggio del Sultano ad Ankara, affrontava con la sapienza greca un saggio persiano. E osava dirgli: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”.

Non con la spada, proseguiva Manuele II Paleologo, ma con la ragione si trasmette la fede, perché “Dio non si compiace del sangue”. Parole fortissime che pesano in quei giorni come un macigno sulla perversa connessione fra religione e terrorismo. E sottolineano una volta di più la diffusa ambiguità delle disorganiche e spesso contraddittorie guide religiose musulmane.

Tuttavia, il discorso di papa Ratzinger non si ferma alla mera contingenza storica. Perciò rileggerlo oggi ci dà il senso della sua profondità e risuona col tono di una profezia. Il problema del rapporto fra fede e ragione non riguarda, infatti, soltanto l’Islam, ma lo stesso Cattolicesimo. La scissione fra pensiero greco e pensiero cristiano ha conosciuto secondo Benedetto, diverse fasi. La de-ellenizzazione più recente è quella che mira a ritornare “al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice”, a sostituire “il culto con la morale”. Una Chiesa, in sostanza, che rinuncia a guardare al cielo, che non punta più a rispondere alle grandi domande, agli interrogativi sul “da dove” e “verso dove”, e guarda solo ad istanze materiali e sociali. E lascia la ragione all’ambito della scienza, quasi che la religione, tutte le religioni, siano incompatibili con la ragione. È questo per Benedetto il dramma della rinuncia alle nostre radici elleniche, la rottura del saldo legame fra fede e ragione che discende direttamente dalle domande di Socrate, dalla filosofia di Platone. Un legame che “ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa”.

Due mesi dopo quel discorso pronunciato a Ratisbona, nel novembre del 2006 Benedetto, dopo essersi sfilato le scarpe, varcò la soglia della Moschea Blu di Istanbul e sostò in preghiera davanti al mirhab, l’edicola che indica la direzione della Mecca. E nel Libro d’oro di Santa Sofia, la grande basilica di Giustiniano, all’epoca non ancora trasformata in moschea, come accaduto nel 2021 per decreto del presidente Recep Tayyip Erdogan, Benedetto XVI scrisse in italiano le seguenti parole: “Nelle nostre diversità ci troviamo davanti alla fede del Dio unico”.

Fede e ragione, ellenismo e cristianesimo, radici di un’Europa millenaria, hanno trovato in Joseph Ratzinger forse l’ultima grande personalità di un mondo antico e sempre vivo, ma oggi sentito quasi estraneo, superato. In nome di una Chiesa sempre più concentrata sui temi del sociale, e di una umanità asservita alla tecnica e alle chimere della scienza. Che procede, come ha sempre ripetuto Ratzinger, etsi Deus non daretur – “come se Dio non ci fosse”, finendo per ridurre l’uomo “a una sola dimensione, quella orizzontale”. Così: “oscurando il riferimento a Dio, si è oscurato anche l’orizzonte etico, per lasciare spazio al relativismo e ad una concezione ambigua della libertà, che invece di essere liberante finisce per legare l’uomo a degli idoli”.

Parole sempre attuali di un grande profeta dei nostri tempi, non solo troppe volte ignorato, ma in numerosi casi rinnegato, osteggiato, vilipeso e perfino messo a tacere nell’ambito di quella stessa Chiesa che, d’altra parte, non ci ha messo molto a dimenticarlo dopo le dimissioni annunciate l’11 febbraio del 2013.

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