Non si arrabbia neppure quando cerchi di metterla alle strette. Si sposta di lato e esce dall’angolo, sorridendo. È una tecnica che deve aver raffinato frequentando suo marito, Pinuccio Tatarella, ministro dell’armonia. Angela Filipponio è una donna dolcissima, insegna Filosofia del diritto, quando parla si ferma e prende tempo. Soppesa. Se c’è qualcosa che la amareggia non lo dice, solo ogni tanto sulla sua voce scivola un’ombra, un mezzo malumore, una nostalgia. Come suo marito, risolve tutto con una risata e ripete una frase che il grande tessitore citava spesso: «La vita è già così complicata, perché litigare?». Pinuccio non ha mai querelato nessuno e quando qualcuno non gli stringeva la mano alzava le spalle e diceva: «Con il tempo capirà».
Tanti, in questi giorni di scazzi e veleni, con il Pdl slabbrato, Fini che pontifica di destra moderna e Berlusconi che non ha più voglia di starlo a sentire, si sono ritrovati a sussurrare: «Ci fosse stato Tatarella tutto questo non sarebbe successo». La professoressa Filipponio ha ascoltato il discorso di Gianfranco da Mirabello. Ha visto, sentito e non ha capito. Il suo desiderio è che nessuno tiri Pinuccio per la giacca. Lo usi come scudo o come feticcio. Nessuno, di qua o di là. Tatarella portava nel cuore la stessa leggerezza di Mercuzio, «maledette le vostre due famiglie». Non era uomo da guerra civile. La professoressa non lo dice, ma si capisce che non vuole che il nome di suo marito venga speso in questa contesa. Se parla lo fa in prima persona. «Scommetto che anche lei vuole sapere cosa avrebbe fatto Tatarella?».
Cosa avrebbe fatto?
«Non ne ho la minima idea».
Neppure un sospetto?
«No. Non so cosa farei io tra dieci anni, come posso parlare a nome di mio marito. Nessuno può farlo. Non è che uno reagisce sempre allo stesso modo davanti a una determinata situazione. Come vede non le posso essere utile».
Ma i princìpi non cambiano.
«Quelli no. Allora le posso dire che Tatarella non era un uomo di fazioni. Lui parlava di andare oltre il polo. Non si sarebbe accontentato neppure del Pdl. Sognava di regalare alla destra la sua Itaca. Un partito, una casa, per il 60 per cento degli italiani che non si riconoscono nella sinistra».
Il sogno di suo marito si è interrotto.
«A quanto pare sì».
Fini ha cambiato idea?
«Non lo so. Io credo che le intenzioni di Gianfranco non fossero queste. Non penso lui volesse la fine del Pdl».
Le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni.
«È l’eterogenesi dei fini. Uno compie un’azione ma non può prevederne le conseguenze».
In teoria sono infinite.
«Appunto».
Fini ha tirato troppo la corda? È stato precipitoso?
«Non ha cercato una via d’uscita diversa. La situazione si è incancrenita. Ma io parlo da profana. Non conosco bene come stanno davvero le cose».
È d’accordo con la scelta di creare un nuovo partito?
«No».
No?
«No. Non sono d’accordo con Fini. Ma anche con mio marito qualche volta non la pensavamo allo stesso modo e non per questo abbiamo divorziato».
Delusa?
«Non sono queste le cose che mi deludono».
Dove ha sbagliato Fini?
«C’erano margini per ritrovare un’armonia».
Tatarella l’avrebbe cercata?
«Era testardo. Avrebbe fatto di tutto. Avrebbe cercato il dialogo. Era teoretico e pragmatico».
E avrebbe tenuto lontano i poteri forti dal suo partito. Montezemolo, per esempio.
«L’espressione poteri forti era sua. Ma non riuscirà a farmi parlare al suo posto».
Cosa resta di An?
«Quello che vede».
Quindici anni fa Gasparri, La Russa, Bocchino e suo marito si incontravano tutti i pomeriggi al bar Giolitti.
«Ecco, lei prima mi ha parlato di delusione, di questo sono delusa. Mi fa davvero male».
Se lo aspettava?
«No. Ma mi ha fatto già parlare troppo. Ora davvero devo andare».
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