Cultura e Spettacoli

La veglia della Ragione genera mostri utopici

Un caustico saggio di Rino Cammilleri denuncia i danni provocati dai deliri rivoluzionari alla ricerca della società perfetta

E se la fine del mondo - quella vera, non in senso figurato - coincidesse con il secondo governo Prodi? A metà primo secolo dopo il Mille il monaco irlandese Malachia profetizzò i pontefici futuri assegnando loro un epiteto (per restare agli ultimi: Flos Florum ovvero Paolo VI, De medietate Lunae ovvero Giovanni Paolo I, De labore solis ovvero Giovanni Paolo II). Papa Ratzinger sarebbe De gloria olivae e già la gloria dell’Ulivo lascia da pensare... Ma questo è niente perché poi verrà, a sigillo dei tempi, Petrus Romanus secundus. Si chiede Rino Cammilleri: «Non potrebbe essere una errata grafia per “Prodi Romano secondo”»? Ha un bel dire, Cammilleri, «i lettori si saranno accorti già da un pezzo che questo libro è ironico, talvolta sarcastico». Certo, e la impertinente interpretazione di Malachia ne è testimonianza. Però badate, I mostri della ragione/2 (Ares, pagg. 360, euro 18) non è un pamphlet ma, come specifica il sottotitolo, un viaggio «tra i deliri di utopisti e rivoluzionari» e sembrerebbe pura accademia se quei deliri non facessero tuttora farneticare una larga fetta della società politica e una larghissima di quella così detta civile.
Tentazione costante dell’essere umano, il pensiero utopico ruota attorno a due dogmi (utopici): il ritorno allo stato di natura e l’abolizione della proprietà privata. Ridiventati «buoni selvaggi» nullatenenti ci ritroveremmo immancabilmente felici oltre che buoni, pacifici, equi, solidali, disponibili al «dialogo» e a tutte le bellurie possibili e immaginabili. Da Platone alla versione floreale degli hippies o a quella bestiale dei killing field dei khmer rossi - passando per Moro, Bacone, Campanella e la Rivoluzione francese - Cammilleri prende in esame le numerose elaborazioni sul tema della società perfetta. Tale non solo perché elimina la proprietà privata, ma in quanto pratica una rigida divisione in caste, mette donne, dormitori e mense in comune, nega il rapporto di parentela, applica la selezione genetica (anche in Campanella), pratica l’eutanasia a danno dei deboli. In quanto nella società utopica nessuno può cercare di elevarsi sugli altri o di distinguersi così che nel lavoro come nella scuola vi è bandita la meritocrazia e di conseguenza ogni forma di «carriera» o di bocciatura (ma questa, almeno nelle scuole italiane, non è più utopia). Anche se da millenni fantasticata, una società così, o anche solo una società senza proprietà privata, non ha mai attecchito: eppure, osserva Cammilleri, «non è mai mancato chi non abbia continuato imperterrito a vagheggiare un mondo di uguali, in cui tutto è di tutti, corpi compresi» e ciò «con una ostinazione per il paradise now, qui e adesso, che solo categorie metafisiche possono spiegare».
Si usa dire con Francisco Goya che il sonno della ragione genera mostri. Ma come afferma Vittorio Messori nella sua introduzione, «la storia ha sempre dimostrato che sono certe “veglie” della Ragione (soprattutto quando è pensata e scritta con la maiuscola) a partorire mostri. E spesso terribili per inesausta sete di sangue». Sono quelle le creature che Cammilleri viviseziona spaziando dalla simbologia massonica alla «razionalizzazione igienica» delle tombe; dal maschilismo rivoluzionario animato da un Saint-Just misogino alla privatezza quale peccato contro l’egualitarismo perché con la privacy «ci si sottrae al controllo sociale e si dimostra di poter fare a meno del riconoscimento della comunità» fino alla comune e al collettivo sessantottino, «riproposizione in chiave marxisteggiante delle “società di pensiero” francesi del XVIII secolo»; dal nazismo, ideatore della talassoterapia, dell’alimentazione vegetariana, e dell’ecologismo, delle pratiche «alternative» e dell’animalismo in genere, ai paradisi artificiali della cultura beat e rock. Insomma, I mostri della ragione/2 è una documentata denuncia dei danni, spesso irrimediabili, causati dalle cattive lezioni dei cattivi maestri, gli intellettuali di professione. Nel tirarne le somme Cammilleri chiama in causa Alexis de Tocqueville un pensatore ritenuto, dai sacerdoti di quella dottrina, politicamente corretto e secondo il quale è sempre da preferire un politico anche mediocre al più brillante degli intellettuali. Perché il politico, l’amministratore o l’uomo d’azione sono responsabili di quello che fanno (e dicono). Non così gli intellettuali, coloro che per mestiere «fanno» gli intelligenti, ai quali molti, troppi, quasi tutti, hanno delegato il compito di pensare e che non pagano mai il conto dei mostri partoriti da una ragione alla quale converrebbe non la veglia, ma il sonno.

Se non addirittura il coma.

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