da Roma
Ci sono piccoli segnali, che arrivano da un capo all’altro d’Italia, che da soli raccontano la crisi del Pd ancor meglio dei drammatici j’accuse che qualcuno, come Arturo Parisi, inizia a lanciare da Roma.
A Reggio Emilia, per fare un esempio, nel cuore dell’Italia rossa e di quella prodiana, il Partito democratico ha perso l’80 per cento degli iscritti che meno di un anno fa avevano i Ds da soli. Oggi sono 1.200, un quinto di quelli della Quercia.
In Campania, un consigliere regionale del Pd, Michele Caiazzo, si è messo a fare due conti. E ha scoperto che in 110 comuni della regione il suo partito ha avuto più partecipanti alle primarie che voti alle elezioni politiche di aprile. «Evidentemente - spiega - molti cittadini hanno partecipato alle primarie non perché credevano nel progetto ispiratore del Pd, ma solo per sostenere determinati candidati indipendentemente dal proprio credo politico». Clientelismo? Caiazzo si limita a dire che «forse è ora di avviare una riflessione sulle modalità di utilizzo dello strumento delle primarie».
A proposito di primarie: in Sardegna il governatore-editore dell’Unità, Soru, è sotto accusa per «l’ennesima sberla subita alle amministrative», come denuncia il segretario regionale Cabras, attribuendogliene la responsabilità. E ora gran parte del partito reclama le primarie per impedirgli di ricandidarsi, come invece vorrebbe Veltroni.
In Sicilia, la débâcle elettorale lascia una scia di sangue e di rancori verso Roma. «Perché abbiamo perso? Perché abbiamo fatto eleggere al Parlamento nazionale otto dirigenti non siciliani e che qui, com’era prevedibile, non ci hanno messo più piede», denuncia il sindaco di Caltanissetta, Salvatore Messana. «Siamo stati mandati a mani nude contro i carri armati - dice Franco Piro, candidato sconfitto alla Provincia di Palermo -. Non ci hanno dato neanche un fucile ad acqua per difenderci. E così siamo stati travolti. È innegabile che ci sia stato un collasso del Pd non solo a Palermo ma in tutta la Sicilia».
All’Assemblea costituente di venerdì, davanti alle sedie lasciate vuote da quasi i quattro quinti dei delegati, che a Roma non sono proprio venuti, il gruppo dirigente del Pd si è apparentemente ricompattato attorno al segretario. Conclusioni unitarie, rilancio della linea, elezione bulgara della direzione, nessuna contestazione aperta alla leadership. Buffetti persino da D’Alema: «Alle elezioni di aprile eravamo già battuti, se mai Veltroni ha opposto un argine». L’istinto di sopravvivenza è scattato in tutto o quasi l’apparato, perché «se Veltroni mollasse ora, andrebbe a picco l’intero Pd», come fa notare un dirigente vicino a D’Alema. Fuori dal coro è rimasto solo Arturo Parisi, personaggio anomalo che non risponde ad alcuna logica di corrente o di potere, e che da sempre crede nel progetto del Pd. «Il re è nudo», annuncia al Corriere, il Pd rischia di «dissanguarsi», bisogna evitare che «la crisi di una leadership si trasformi nella crisi del partito». E chiede appunto che «si cambi il leader», accusando di «slealtà» verso Veltroni l’intero gruppo dirigente: «Io dico in pubblico quel che quasi tutti dicono in privato: preferiscono tutti tirare di fioretto, ferirlo di punta, mettendo nel conto che l’avversario poco a poco si dissangui». Tutti, insomma, aspettano le europee del prossimo anno per fare i conti col leader, e intanto organizzano il proprio residuo potere in correnti che ormai non si contano più: D’Alema, Fioroni e Franceschini, la Bindi, Letta, Rutelli, Fassino, Marini. Ognuno per sè, mentre la barca rischia di affondare.
Veltroni per ora tenta di resistere, con la speranza che di qui ai prossimi mesi la «luna di miele» di Berlusconi si rompa, ridando un po’ di fiato al Pd. «In fondo, persino il governo Prodi nei primi mesi aveva buoni sondaggi», sospirano i suoi.
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