Veltroni gioca la carta della disperazione: aprire alla Lega

RomaTutti insieme appassionatamente, come nel musical con Julie Andrews: il (possibile) assalto finale contro Berlusconi e - soprattutto - il rischio di elezioni anticipate, con annesse liste da redigere, hanno fatto il miracolo: il Pd esce, almeno nell’immagine, ricompattato dal Lingotto 2 organizzato da Walter Veltroni. Appuntamento che, fino a una settimana fa, sembrava destinato ad essere - se non l’anticamera della rottura - di certo il battesimo di una linea alternativa a quella del segretario.
Invece, anche nel Pd sembra suonata l’ora del bunga bunga: Bersani è accorso a Torino, ha siglato la tregua con Walter, gli ha fatto i complimenti per il «bel discorso», è intervenuto anche lui tra gli applausi. A Torino è andato pure il capogruppo Franceschini, che fino a dieci giorni fa voleva fare secchi tutti i veltroniani con incarichi di partito e oggi invece celebra la «condivisione».
Quanto a Veltroni, l’ex leader ha accantonato o addolcito molte delle critiche interne, e ha imbracciato saldamente l’arma collaudatissima dell’antiberlusconismo. «Parole agghiaccianti» del premier contro i pm, Berlusconi «o va a chiarire tutto davanti ai magistrati, e non credo possa, o si dimetta». E poi?
Qui passa l’unica vera differenza di toni con Bersani: Veltroni chiede un governo di salvezza nazionale, con «tutte le forze politiche» (tolto il Cavaliere). Per evitare il voto. Il segretario Pd, invece, sembra puntare con molta più decisione sulle urne: «Qualsiasi soluzione è meglio di questa, elezioni comprese. E noi siamo pronti, e le vinciamo».
È questa divergenza di strategie la vera faglia che divide sottotraccia il Pd. Bersani sa che un voto ravvicinato ricompatterebbe necessariamente il partito, rafforzerebbe la sua leadership e le sue chance di fare il candidato premier. Mentre il tempo lavora a suo sfavore. Di qui anche la decisione di far partire la «grande raccolta» di 10 milioni di firme contro Berlusconi: al di là dell’obiettivo propagandistico, è lo strumento che serve a mobilitare il Pd sul territorio, accendendo i motori della campagna elettorale. Il braccio destro di Bersani, Migliavacca, sta già chiamando a raccolta la periferia, chiedendo di tenersi pronti allo sbocco elettorale.
Il grimaldello di tutto, su cui nei prossimi giorni potrebbe riaccendersi lo scontro interno, è il federalismo. Bersani finora è stato granitico: il Pd deve votare no in commissione. Se anche Terzo polo e Idv saranno compatti «la maggioranza non avrà i numeri per farlo passare, e a quel punto Bossi sarà costretto a fare la crisi», spiega ai suoi. Ma il segretario si ritrova contro il Pd del Nord e l’ala riformista (con la benedizione per ora silenziosa di Veltroni), che invece lavorano per l’intesa con la Lega e per un’astensione in commissione che faccia passare i decreti delegati. E il Carroccio sta facendo tali e tante aperture alle richieste delle opposizioni e dei sindaci che tra lunedì o martedì arriverà il via libera di Sergio Chiamparino, a nome dell’Anci. Il sindaco di Torino, d’altronde, è il capofila del Pd nordista che, come dicono i parlamentari democrat Boccia e Stradiotto «al federalismo crede quanto la Lega, ma vuole farlo bene». E che, soprattutto, vuol aprire la via ad un dialogo politico con Bossi, per «riuscire finalmente a staccarlo da Berlusconi».

Una strategia che dovrebbe portarlo, una volta approvato il federalismo, a scaricare il premier al primo inciampo parlamentare e a sostituirlo con un governo sostenuto dalla Lega, benedetto dalle gerarchie vaticane e dal Colle (il nome sulla bocca di tutti è ovviamente quello di Tremonti), che potrebbe trovare la benevola sponda del Pd. Scenario che ovviamente non può piacere a Berlusconi, ma che - al momento - non piace neppure a Bersani.

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