Roma - Alle 10.30 del mattino, quando in teoria i lavori dovrebbero essere già cominciati, la platea semideserta è un colpo d’occhio è desolante. E la relazione di Walter Veltroni, che apre l’assemblea costituente del Pd, slitta, in attesa che le sedie vuote si riempiano.
Alla fine, dei 2.800 delegati i più ottimisti ne contano un terzo, al massimo. «Il livello di partecipazione la dice lunga sul clima interno», sospira Enrico Letta, ministro ombra ma anche animatore di una delle tante correnti critiche verso il segretario. Il clima, già. Ad animarlo, a parte le vibranti contestazioni alla «democrazia» dell’assemblea mosse da Arturo Parisi, c’è solo Silvio Berlusconi. La fine del «dialogo», e il ritorno dello scontro. Con Veltroni che accusa il premier di «anteporre gli interessi personali a quelli pubblici», e di aver consumato uno «strappo» alle regole con le norme «ad personam» per bloccare i processi, finendo anche per «colpire le prerogative del capo dello Stato». E con Berlusconi che attacca duro, accusando Veltroni di essere «un amministratore fallito» per il buco lasciato nei bilanci di Roma: «Non può proporsi come un leader credibile». Veltroni denuncia il «polverone» e la «violenza» dei giudizi berlusconiani, e rinfaccia al premier il «suo» buco: «Trenta miliardi di deficit che ha lasciato agli italiani: è l’ultimo che può parlare in materia». E annuncia, cogliendo di sorpresa il suo stesso partito, una «grande manifestazione nazionale» di protesta per l’autunno, quando sarà in discussione la Finanziaria di Tremonti. Su cosa si chiameranno alla mobilitazione le masse democrat non è ancora chiaro, e qualcuno, pure tra i giovani leoni veltroniani, è un po’ perplesso. «Anche perché - spiega il parlamentare friulano Alessandro Maran - questo governo mi pare molto abile nel mettere in campo negli stessi provvedimenti norme popolari e anche giuste insieme a quelle criticabili e sbagliate. Ad esempio, il nostro ministro ombra della Giustizia Tenaglia mi ha spiegato che il decreto sulla giustizia civile inserito nella manovra economica è ottimo e sacrosanto». Ma per Giorgio Tonini, consigliere veltroniano, la mobilitazione riuscirà: «La gente ha voglia ogni tanto di andare in piazza, Berlusconi quando era all’opposizione ce li portava eccome. Certo - ammette - loro avevano il vantaggio di poter mostrare la faccia feroce di Visco per attirarli. Ma anche noi troveremo il modo», assicura.
Piazza, dunque, nonostante i dubbi di chi, come il moderato Follini, invita a «non regalare l’anima a Di Pietro e ai girotondi». Ma senza «ritorni al passato», promette Veltroni, senza cedere al «richiamo della foresta» dello scontro antropologico. Perché il Pd non è più il «vecchio centrosinistra» che si univa solo «contro» qualcuno: è una forza «riformista e moderna» che ora è stata sconfitta (e per la prima volta Veltroni ammette senza mezzi termini che la batosta è stata dura e lo scarto con il Pdl «ampio») ma che si deve preparare a tornare al governo. E il leader rivendica la linea fin qui seguita: «Se non avessimo scelto la discontinuità con l’Unione, avremmo perso ugualmente, ma non avremmo salvato il progetto del Pd». Chi gli rimprovera la rottura delle alleanze rifaccia i conti: il Pd, coi suoi 12 milioni di voti, è andato molto «meglio» dell’Ulivo nel 2006. E si è liberato dell’ipoteca di quella sinistra massimalista che Veltroni attacca duramente, dandole la responsabilità della caduta di Prodi.
Il quale Prodi, ironia della storia, si prende (in contumacia) la più vibrante standing ovation dell’Assemblea: pochi mesi fa, lo stesso consesso quasi lo fischiava. Oggi è diventato l’icona nostalgica di un tempo in cui Berlusconi poteva persino essere battuto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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