Politica

Veltroni punta su Renzi per spodestare Bersani

Il segretario vuole il voto anticipato per restare in sella alleandosi con Di Pietro e Vendola L’ex sindaco di Roma spinge per un governo tecnico e le primarie per lanciare i giovani

Veltroni punta su Renzi 
per spodestare Bersani

di Altro che rottamatori: i rottamandi del Pd sono in piena attività, e l’idea di far fuori Bersani (non perché sia Bersani, ma perché è il segretario) sembra averli ringiovaniti di colpo. Due anni sono decisamente troppi, per un partito abituato a cambiare nome e leader più rapidamente di quanto Berlusconi si cambi la cravatta, tanto più se si avvicinano le elezioni, e tanto più se il voto, stando ai sondaggi, promette bene per il centrosinistra.

Il problema è come arrivarci, alle elezioni. E qui le strade che indica il Pd sono due: Bersani e i dalemiani spingono per le elezioni anticipate; Veltroni insiste sul governo di transizione. L’aspetto surreale del dibattito, che ha lacerato l’altro giorno la direzione del partito, sta nel fatto che nessuna delle due opzioni è nella disponibilità del Pd, che non può né far cadere il governo, né sciogliere le Camere. Ma la politica, si sa, prescinde spesso dalla realtà. Quel che conta è lo scenario, la tattica, l’espediente del momento. Veltroni vuole il governo di transizione perché conta in questo modo di cementare un’alleanza con l’Udc che potrebbe poi trasformarsi in coalizione elettorale: ma in questo caso, com’è evidente, il candidato premier non sarebbe Bersani. Il quale invece chiede le elezioni perché sa che le sue chances di guidare la coalizione sono inversamente proporzionali alla durata della legislatura.

La questione della leadership è particolarmente curiosa. Fu Veltroni a volere nello statuto del Pd la norma secondo cui il segretario è automaticamente il candidato premier; oggi è il veltroniano Ceccanti a chiedere di abolire la regola per fare spazio a nuove primarie. Il motivo del cambiamento è semplice: i veltroniani hanno trovato il loro candidato. È Matteo Renzi, la cui discesa in campo dovrebbe essere annunciata al prossimo meeting della Leopolda, e che Veltroni considera la persona adatta a pensionare la vecchia classe dirigente e a salvare se stesso (la controprova sta nel fatto che D’Alema non perde occasione per punzecchiare il sindaco di Firenze). I bene informati sostengono che l’ex sindaco di Roma abbia un disegno ambizioso: il Quirinale. Non nel 2013, però, ma sette anni dopo. Nel frattempo, l’aspirante padre nobile s’incaricherebbe di portare Renzi a Palazzo Chigi e Casini al Colle.

Chiacchiere, fantasie, ipotesi campate in aria? Di certo, Bersani le prende molto sul serio, al punto da confidare a Repubblica che «ci sono dirigenti che hanno retropensieri personali».
Dal punto di vista politico, Bersani si è giocato la poltrona di Palazzo Chigi (e forse la carriera) salendo sull’improbabile palco di Vasto: quella foto che lo immortala fra Vendola e Di Pietro, come Pinocchio fra il Gatto e la Volpe, ha risvegliato anche nei più smemorati l’incubo dei Progressisti di Occhetto, soltanto più populisti e più giustizialisti. La linea di Bersani - prima il «Nuovo Ulivo» e poi l’accordo con Casini - è vistosamente fallimentare, tanto che neppure i collaboratori più stretti del segretario ci credono più: per loro è evidente che si andrà alle elezioni con tre schieramenti, e che il problema del Pd oggi è cavalcare tutte le proteste per non farsi scavalcare (troppo) da Vendola e Di Pietro.

È per questo che Bersani in questi mesi s’è intestato vittorie non sue (dalle amministrative ai referendum), ha spalleggiato i duri della Cgil e i durissimi della Fiom, ha capovolto le posizioni sulla legge elettorale per compiacere i referendari, e s’è persino scagliato contro la Bce, per bocca del responsabile economico Stefano Fassina, accusandola di proporre ricette «inique e irrealiste». È evidente che su questa linea non può non spaccarsi la stessa maggioranza bersaniana: e infatti Enrico Letta, la cui insofferenza è sempre più evidente, l’altro giorno non ha mancato di denunciare l’«ambiguità» della linea economica del partito.

Le varie componenti ex-democristiane sono frammentate e incattivite non meno delle tribù post-comuniste. Rosi Bindi coltiva non troppo segretamente l’aspirazione a correre per palazzo Chigi, in coppia con Nichi Vendola e in barba a quello statuto che proprio lei ha impugnato contro Renzi. L’attivismo talebano della Bindi (sostenuta dall’ombroso Franceschini) ha come contraltare il moderatismo sincopato di Beppe Fioroni, che un giorno sì e l’altro pure denuncia la deriva estremista del Pd, fa sapere di essere pronto a lasciare, e poi resta sempre dov’è. Dicono i bene informati che prima o poi andrà davvero con Casini, restituendo così il favore che fece Follini entrando nel Pd: zero a zero.

Il quadro non sarebbe completo senza il più democristianone di tutti: Romano Prodi, 72 anni, ex presidente dell’Iri, del Consiglio e della Commissione europea. Le sue ambizioni quirinalizie sono note a tutti, e farà di tutto per realizzarle.

Dalla sua ha il peso della tradizione: anziché rottamare il vecchio, a sinistra si ricicla l’antico.

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