RomaFatta la legge, già parte il referendum per abrogarla.
Il decreto Gelmini sulla scuola è stato approvato in via definitiva dal Senato ieri mattina: 162 voti a favore, 134 contrari e tre astenuti. E subito un gruppetto di senatori di opposizione esce da Palazzo Madama, davanti al quale sono assembrati gli studenti in lotta, portando uno striscione: «Passa la Gelmini, referendum». Di lì a poco sia Antonio Di Pietro che Walter Veltroni annunciano ufficialmente che ora partirà una grande raccolta di firme per abolirla. Pierferdinando Casini invece si dissocia: «È una battaglia simbolica, guardiamo con rispetto ma non aderiamo».
Lidea del referendum era nellaria già da qualche giorno, in casa Pd. Veltroni ne aveva discusso con alcuni esponenti del suo partito, a cominciare dalla capogruppo al Senato Anna Finocchiaro. E oggi ha sciolto la riserva rendendo pubblica liniziativa: «È uno strumento che va usato con parsimonia, ma scuola e università sono temi importantissimi e le misure del governo provocheranno effetti seri sul sistema formativo», dunque vanno contrastate: e ora che in Parlamento la partita è chiusa bisogna andare «nel Paese». È ben vero, come fa notare Casini e come sottolineano sarcastici dalla maggioranza, che il referendum non si potrà tenere prima della primavera del 2010, e «di qui ad allora mancano due anni, si vedrà...», chiosa Massimo DAlema.
Ma non è questo il punto: a questo stadio, del fatto che il referendum si tenga o meno importa poco o nulla ai suoi promotori del Pd. Ai quali stanno a cuore due cose: continuare ad alimentare una battaglia (la prima di questa legislatura) che mobilita, interessa a larghe fasce sociali e che è stata capace di aprire la prima falla nei sondaggi del governo. E non farsi soffiare il treno sotto al naso da Di Pietro.
Nei colloqui di questi giorni, una delle preoccupazioni che lo stesso Veltroni aveva affacciato era quella di non finire scavalcati dallex pm, già mobilitato coi suoi raccoglitori di firme anti-lodo Alfano, né dai comitati spontanei pronti a nascere tra studenti e insegnanti. Insomma, il referendum qualcuno lo avrebbe tirato presto in ballo, e il Pd si è affrettato a metterci sopra il cappello. Riuscendo, per una volta, nelloperazione di oscurare Di Pietro che già si sgolava ad annunciare la «sua» raccolta di firme.
Per farlo, però, ha finito per scavalcare anche alcuni maggiorenti del Pd, che ieri non nascondevano lirritazione per essere stati informati solo a cose fatte, e le loro perplessità sulliniziativa: DAlema che con i suoi si è detto «non entusiasta», pur ritenendo «inevitabile strumento di mobilitazione» la raccolta di firme. Franco Marini che ha notato acido di averlo appreso «solo dalle agenzie», e di non avere dunque commenti da fare. E Marco Follini, che ammette senza peli sulla lingua la propria contrarietà.
Laltra preoccupazione che ora ci si trova per le mani non è da poco: su cosa fare il referendum? Le norme che fanno riferimento a leggi di bilancio non possono essere sottoposte a consultazione abrogativa, e chiamare i cittadini alle urne sul grembiulino parrebbe un po bizzarro. «Questioni come i tagli al fondo universitario non si possono toccare», spiega il senatore Stefano Ceccanti, costituzionalista ed esperto referendario. Quindi? «Quindi credo che il pezzo forte e simbolico su cui concentrarsi sia quello del maestro unico». Ironia della sorte, qualche anno fa la stessa materia fu sottoposta a referendum, promosso dai radicali (oggi eletti nel Pd). Ma in senso inverso: per ripristinare proprio il maestro unico, abolito dalla precedente riforma varata da Sergio Mattarella (oggi Pd).
Ma il contenuto poco importa: «Mettiamo al lavoro i tecnici e abroghiamo labrogabile», ha incitato Pierluigi Bersani nella riunione di ieri del vertice Pd: limportante è proseguire la campagna, e - come spiega il veltroniano Giorgio Tonini - «offrire al movimento anti-Gelmini uno sbocco politico e non-violento, anche per evitare degenerazioni rischiose in questa fase, e una divisione tra chi torna a casa deluso e chi si dà alle risse come oggi».
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