C’è una cosa agghiacciante, più agghiacciante dell’immagine di quella ragazza anoressica sui cartelloni pubblicitari. È la battaglia volgare tra chi è a favore e chi è contro una fotografia, perché ormai non ci sono alternative in questo Paese grillesco, o di qua o di là, il ministro, il sindaco, il fotografo, l’assessore, lo psicologo, lo psichiatra. E nessuno che provi ad andare oltre, contando fino a dieci, pensando prima di parlare, chiedendosi perché. Perché un essere umano, una persona, per la maggior parte trattasi di una donna (e su questo ancora di più si dovrebbe riflettere), in un mondo così zeppo di cose, di stimoli, di alternative, di comode isole (non dei famosi) per l’approdo, ma forse tutto fragile come la vittima stessa, a un certo punto della propria esistenza decida di afflosciarsi, di abbassare le luci, di sopravvivere, pur continuando a vivere, frequentando una vita fioca. Dicono che sia una forma di difesa contro chi, la famiglia, il gruppo, la società, li stia trascurando, li emargini, li demoralizzi, li umili. Al contrario la considero una violenta forma di attacco perché la famiglia, il gruppo, la società, tutti in evidente ritardo sulla tabella dei propri doveri affettivi e di protezione, finiscono spiazzati e disarmati di fronte all’atteggiamento di ribellione fisica e mentale di chi ritenevamo facile preda. E qui entra in ballo la sensibilità di ognuno di noi, la capacità di intendere non la sofferenza ma la causa che l’ha provocata, di individuare le responsabilità, gravi, anche antiche, affrontandole rudemente, una volta per tutte, invece di delegarle pilatescamente a centri di cura, a strizzacervelli che spesso usano le nostre figlie e i nostri figli come testi di studio, esperimenti per ulteriore apprendimento, mentre noi restiamo in attesa del miracolo, di qualcuno che ci tolga dalle pene, essendo (stati) noi incapaci a nulla e a tutto.
Qualcuno ha tirato in ballo, tra i maggiori colpevoli, il mondo della moda, la sua ostentata celebrazione della magrezza esasperata, le taglie extraslim. Osservando una sfilata basta fissare lo sguardo assente, freddo, inutile quasi, mai sorridente, sereno, aperto delle modelle, per comprendere che esse siano, in verità, manichini in movimento, corpi ricoperti di sete e di rasi, svuotati di chilogrammi e di anima. Pochissimi in verità, per opportunismo e cortigianeria, fanno nomi e cognomi, smascherano i vampiri; gli stilisti sono fonti di entrate pubblicitarie importanti per giornali e televisioni, meglio mantenersi sul vago, su dati generali: moda, quattro lettere e lo slogan entra in circuito. Ma non è nemmeno questa, non può e non deve essere soltanto questa, la causa scatenante se pensiamo, ad esempio, che l’anoressia ha radici antiche, addirittura di metà del secolo diciassettesimo quando i modaioli, se mai esistessero già, avevano spazio limitato e l’arte figurativa ci propone modelli da taglia extralarge. Il logorio della vita moderna, la nostra (dico la mia) assenza, non quella fisica che è la più comoda da recuperare e coprire, ma quella amorosa, verace, anche sanguigna, provoca ferite profonde sulla formazione e maturazione di un figlio, di una figlia. Non certo per carenze contabili, la malattia infatti riesce a infilarsi facilmente nel ceto più agiato, ma per la latitanza di un dovere paterno e materno, per la stessa egoistica crisi di coppia dei genitori e, infine ma forse è la prima causa, per l’estrema fragilità di chi decide di ribellarsi, di lanciare la sfida. A se stesso e agli altri. Incomincia a questo punto una corsa in salita, inseguendo un fantasma che non ascolta, che non risponde, che sussurra, quasi rantola nella voce ma non nel pensiero che sta disegnando la vendetta. La salita è dura, faticosa, lunga, la corsa si svolge nel silenzio complice, in uno sguardo imprevisto, in un sorriso sincero, insomma nel repertorio che non era mai stato costruito, frequentato, regalato prima. Vedi un volto che sfiorisce, scorgi occhi senza luce, osservi un corpo che si sgonfia, resti in attesa di una parola che non arriva. Mai. L’eco dei pensieri sfocia nel pianto. La salita ha un traguardo d’arrivo, con più vincitori. Ma la corsa si porta appresso la memoria, impossibile da evitare, trasformata in un antifurto per il resto dell’esistenza sua e nostra.
La ragazza del manifesto è sola, elegante nella sua postura, come le modelle nelle sfilate, loro tutte disgraziatamente sole. Dovrebbe invece essere circondata da uomini e donne senza occhi, senza cuore, ombre nello sfondo. Il popolo di tutti i giorni.
Tony Damascelli
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