La vendetta dei ribelli: riconquistano Ajdabya e fanno a pezzi i nemici

AjdabyiaUn cencio di lana e sabbia, un pugno calcinato, cinque artigli di carbone avvinghiati ad zolla di deserto. La coperta si solleva, un nugolo di mosche svela l’orrore. Il cranio è un’anguria cucinata, bruciata, scoppiata, il resto uno scempio senza più forma. Ahmed Sheiki sventola la coperta insanguinata, gli insetti impazziti sciamano confusi tra lamiere contorte, sabbia infuocata, granate inesplose. Ronzano famelici e indifferenti su quel crogiuolo di vittoria e sconfitta, disprezzo e orrore. «Guardateli, sono neri, neri come quelli del Ciad sono venuti da lì non sono libici, sono mercenari, sono arrostiti con i soldi di Gheddafi», strilla Ahmed Sheiki mentre il suo amico solleva al cielo un altra coltre, scoperchia un’altra urna. Stavolta è una croce rivolta al cielo, le braccia aperte, il volto scavato da una sciabolata di schegge. Sono solo i primi due in questo sterminato cimitero di distruzione e morte che circonda l’asfalto, tracima nella sabbia s’estende tra le dune avvolge la città e le sue case, s’allunga a sud per una ventina di chilometri. Ajdabya è libera, le truppe di Gheddafi sono in fuga, i tricolori neri rossi e verdi dei ribelli issati sui cassoni dei pick up disegnano la vittoria. Le mitragliatrici antiaree e i kalashnikov la suggellano con migliaia di colpi sparati al cielo. In questa gazzarra di gioia e morte è disegnata la geografia della disfatta, il colpo fatale inferto alle truppe del rais dai Tornado e dai Rafael della coalizione, la vittoria intascata ma non guadagnata dall’armata Brancaleone della Cirenaica. I due primi corpi calcinati sono a una decina di chilometri dal posto di blocco che fino ad ieri sera segnava l’ultima linea ribelle. La svolta piomba dal cielo nella notte di venerdì quando una squadriglia inquadra nei radar i due carri T-72 appoggiati alla massicciata di sabbia, le batterie di katyusha parcheggiate nel deserto, i blindati con a bordo fantaccini libici e mercenari neri. Non è battaglia, è ecatombe. I missili decapitano i carri, carbonizzano i camion con le katyusha, trafiggono uno dopo l’altro i blindati per il trasporto truppa. Chi è ancora vivo zompa sui mezzi, salta sulle macchine civili razziate in città, corre verso sud. È una fuga disperata interrotta da continue scudisciate. Le piaghe sono un ricamo nero disegnato per chilometri nelle dune. Chi è colpito non ha speranze. Questa torretta di T-72 volata a venti metri dalla propria carcassa, quel grumo di carne sangue e vestiti che le fumano accanto ne sono la dimostrazione. I guerriglieri in jeans e bandana che ci danzano attorno sono controfigure di una svolta caduta dall’alto, decisa altrove. Dietro le truppe in fuga c’è solo il rombo dei jet e il fremito della paura. I ribelli per arrivare ad Aidabya devono solo metter in moto la proprio colonna. Solo inseguire la scia di morte. Eccola Ajdabya. Palazzi senz’anima finestre sprangate, abitazioni abbandonate da giorni. Chi come Mokhtar Said ti spinge tra le serrande i calcinacci d’una camera sventrata è appena arrivato da Bengasi. «Siamo fuggiti tutti, chi poteva sopravvivere qui... i soldati di Gheddafi tiravano su chiunque si muoveva». L’ingresso del suo vicino è un impasto di sabbia e sangue. «Sua moglie è morta decapitata da una scheggia, lui è rimasto ferito alla schiena. Non si poteva vivere qui». Di tanto in tanto qualcuno arriva, spinge il cancello, salta in macchina corre a Bengasi a richiamare la famiglia. «Chi poteva se n’è andato, chi è rimasto era senz’acqua e senza cibo - ti racconta Ahmad Lesmashy direttore dell’ospedale - Dentro non c’è un solo paziente. Non potevamo lavorare, di notte li trasferivamo fuori dalla città li mandavamo a Bengasi». Alla luce della liberazione la Stalingrado dei giorni passati sembra una città fantasma, desolantemente abbandonata. L’ultima mazzata è 20 chilometri oltre l’ingresso occidentale della città. Sono venti cadaveri che gli infermieri raccolgono e scodellano sul cassone di un camion. Visti da lontano sono un raccapricciante informe cumulo di carne, un monumento ambulante all’orrore della guerra. I guerriglieri lo circondano con i kalashnikov alzati, lanciano al cielo l’entusiasmo indifferente dei loro Allah Akbar.

Tutto quel che non è ancora su quel camion, tutto quel che non fuma nella polvere, è arroccato trenta chilometri a sud. E per sloggiarlo non servirà l’entusiasmo rivoluzionario, non servirà Allah. Basterà un’altra artigliata di Tornado.

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