Vendette, guerriglie, rivendicazioni. Il "cessate il fuoco" apre spesso a nuovi conflitti

I Paesi comunisti sotto l'Urss. Il Vietnam dopo l'intervento Usa L'Afghanistan. L'Irak... Ogni guerra finita ha i suoi contraccolpi

Vendette, guerriglie, rivendicazioni. Il "cessate il fuoco" apre spesso a nuovi conflitti
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Si fa presto a dire pace. Quando finisce una guerra, restano irrisolti innumerevoli problemi generati, di norma, da dettagli trascurati per ragioni di necessità. Anche quando è ben chiaro il confine che divide i vincitori dagli sconfitti, a chi sarà assegnato l'alloro per aver combattuto dalla parte del bene e chi sarà invece dannato come un'incarnazione del male. Ad esempio, noi siamo soliti definire "ottant'anni di pace" quelli che ci dividono dal 1945, quando si concluse la Seconda guerra mondiale. È accaduto anche nel 2025, allorché si è celebrata la ricorrenza dell'ultima grande battaglia contro Adolf Hitler, l'Italia mussoliniana e il Giappone. Pace sì, per il mondo atlantico, Europa, America del Nord e, se vogliamo, l'Australia. Ma non per tutto il resto dell'umanità: in Asia, Africa, America Latina e Centrale.

Senza contare che la Guerra fredda tra l'universo comunista e quello occidentale (1946-1989) ha prodotto, direttamente o indirettamente, un numero di morti quasi comparabile a quello dei due conflitti mondiali. La vittoria comunista in Cina (1949) ebbe come contraccolpo la guerra di Corea (1950-53). E, dopo la sconfitta dell'esercito francese a Dien Bien Phu (1954), gli Stati Uniti si impegnarono in misura di anno in anno crescente in un conflitto a difesa del Vietnam del Sud contro quello del Nord che si protrasse fino al 1975 coinvolgendo la Cambogia e il Laos.

Quella sconfitta del 1975 a Saigon fu più rovinosa di quanto apparve all'epoca, con i sudvietnamiti che avevano collaborato con gli americani aggrappati agli elicotteri in fuga. Li aspettava un destino più che amaro nel Paese "ospitante", mentre i loro connazionali, rimasti in patria, si vedevano costretti a tentare la fuga su zattere di fortuna. Per anni. Anni in cui gli Stati Uniti, tornati in "tempo di pace", furono sommersi da un'ondata di libri, film, canzoni che trasmisero un terribile senso di colpa su un'intera generazione. Dal quale fecero fatica a riaversi.

Non dissimile fu, sotto alcuni aspetti, il destino del mondo comunista. Quattro decenni di dittatura. Assenza totale di democrazia, dissidenti in galera. Anche nei Paesi del Terzo Mondo che decidevano di issare bandiere con la falce e martello. A ogni tentativo di riforma in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968 il pronto invio di carri armati sotto le insegne sovietiche. Stermini programmati in Cina e Cambogia. Un conto di morti di gran lunga superiore a quello registrato nei Paesi totalitari nella prima metà del secolo, alla vigilia del 1939, quando iniziò la Seconda guerra mondiale. Più guerriglie e guerre di liberazione che, a dispetto delle intenzioni, producevano regimi dispotici e sanguinari. Infine, l'invasione russa dell'Afghanistan che si concluse in maniera non dissimile da come era andata a finire per gli americani in Vietnam. E si riverberò con un senso di prostrazione sulla Russia gorbacioviana, che pure era impegnata in un tentativo fuori tempo massimo di trasparenza, riforma economica e modernizzazione. Risultato di tutto ciò in particolare della débâcle in Afghanistan fu il crollo del muro di Berlino (1989) e la fine del comunismo (1991). Quantomeno in Europa, dal momento che in Asia si procedette a un'introduzione soft del capitalismo senza che, a partire dalla Cina, si avvertisse la necessità di introdurre liberalizzazioni e ammainare la bandiera rossa.

Il mondo occidentale a quel punto festeggiò in imprudente assenza di scaramanzia la vittoria nella Guerra fredda. Accompagnata dal trionfo del proprio modello di sviluppo e dalla nascita di un nuovo equilibrio internazionale imperniato sugli Stati Uniti d'America. Che avrebbe portato alla pace vera, la quale, un po' ovunque, si sarebbe raggiunta a mano a mano che i Paesi si fossero adeguati al nuovo ordine mondiale.

Ad avvertirci che le cose non stavano affatto così avrebbe dovuto essere la Prima guerra del Golfo (1991), seguita all'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq di Saddam Hussein.

Non solo perché, a dispetto dell'impegno battesimale degli Stati Uniti, si risolse con una pace alquanto instabile. Ma anche perché ci avrebbe dovuto indurre a riflessioni più meditate sul Medio Oriente, guardato fino a quel momento come teatro di un tutto sommato controllabile (ancorché eterno) conflitto arabo-israeliano.

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